lunedì 8 maggio 2017

A Riccia le spoglie di una Regina di Napoli

di Claudio de Luca

Pochi sanno che in Molise riposano le spoglie mortali di una Regina di Napoli, Costanza d’Altavilla (1377-1423), sepolte nella Chiesa di S. Maria delle Grazie in Riccia. Figlia di Manfredi III Chiaramonte, Conte di Modica, Ammiraglio e Gran siniscalco del Regno di Trinacria, Vicario del Regno e Maestro Giustiziere, venne chiesta in isposa da Margherita di Durazzo per il figlio (13enne) Ladislao I d’Angiò, Re di Napoli e di Ungheria. 
La celebrazione avvenne il 15 di agosto dell’anno successivo, dopo l’elezione del nuovo papa Bonifacio IX; e così, per tre anni, Costanza fu Regina di Napoli, finché venne ripudiata. Sciolto il matrimonio col pretesto della minore età dei contraenti, Ladislao sposò Maria di Lusignano, figlia del re Giacomo I di Cipro, e Costanza fu costretta a sposare Andrea di Capua conte d’Altavilla.
Nel corso della cerimonia, ad alta voce e nella pubblica piazza, fu lei stessa a dire al novello sposo: ”Puoi vantarti d’avere per concubina la moglie del tuo Re“. A tutt’oggi, il mausoleo di re Ladislao, posto nella Chiesa di S. Giovanni a Carbonara in Napoli, reca scolpiti in rilievo i nomi delle sue tre mogli; fra questi, quello di Costanza.
Sulla permanenza della Regina di Napoli a Riccia sono nate svariate leggende. Gli esponenti della famiglia de Capua restano nel Paese per tutto il periodo feudale. Con Bartolomeo III raggiungono, agli inizi del ’500, l’apice della fortuna. Questi ottiene l’investitura di tutti i suoi beni e fu nominato Vicerè della Capitanata e del Molise.
Impegnato in studi di giurisprudenza, è autore di un libro sulle consuetudini del Regno. Fece costruire Palazzo Marigliano a Napoli; ristrutturò e completò il castello e la Chiesa di S. Maria delle Grazie a Riccia, dov’è sepolto. Furono suoi fratelli Andrea, Duca di Termoli e signore di Gambatesa e Campobasso; Giovanni, Capitano delle milizie aragonesi, morto in battaglia per avere salvato il Re Ferrante a cui aveva ceduto il proprio cavallo; Fabrizio, arcivescovo d’Otranto. Bartolomeo VI fu l’ ultimo feudatario dei de Capua e fruì dei suoi feudi per 60 anni. Dagli avi ereditò il titolo di Protonotario del Regno e fu Colonnello del Reggimento “Terra di Lavoro” nella battaglia di Velletri (1744), fondamentale per la dominazione dei Borboni sul Regno di Napoli. Fu ferito ad una coscia; e, in seguito a questo avvenimento, con una supplica al re, cercò di recuperare anche i feudi persi a suo tempo dalla sua antenata Costanza di Chiaromonte.
Poi, a causa di sperperi e di debiti accumulati, i possedimenti furono affidati a Governatori ed a fidati Erari e non poche furono le cause che lo videro coinvolto, tra cui quella contro l’Università (il Comune) di Riccia. Alla sua morte, non avendo successori, il Regio Fisco incamerò tutto. I conti con la famiglia vennero chiusi durante la rivoluzione del 1799, con l’assalto e la parziale distruzione del palazzo riccese di cui restò ben poco. Il colpo di grazia intervenne col terremoto del 1805, al punto che solo il maschio di guardia è arrivato integro fino ad oggi. Dopo il 1848, anche nell’agro riccese imperversavano bande di briganti (i Pelorosso, i Varanelli ed i Caruso) che continuarono a saccheggiare le campagne fino al XIX secolo.
Del castello de Capua non si hanno notizie precise. Sotto la signoria di Andrea, fu abitato da Costanza. Con Bartolomeo III si ingrandì assumendo carattere militare. Ai tempi del suo massimo splendore occupava un’area di circa 1.020 mq con quasi 40 ha di parco, delimitato da un muro ed utilizzato come riserva di caccia per gli ospiti.
La residenza dei principi era molto confortevole; purtroppo, ritenuto un emblema delle oppressioni feudali, fu oggetto dell’odio distruttivo della popolazione riccese nel 1799, e non venne più ricostruito. Ne riuscirono, quasi integri, solo il portale, il torrione, una cisterna, parte del baluardo ed alcuni muri. Danneggiato ancora con il terremoto del 1805, oggi mostra solo una torre, superstite delle 8 originarie. Alta quasi 20 m, è composta di conci ed è costituita da una zona inferiore a scarpa e da una superiore cilindrica, rifinita in alto da beccatelli. Una scritta reca il motto:”Avvicìnati, se vieni come ospite; fuggi, se sei un nemico, affinché non ti colga l’ira di Giove!“. Notevole il serbatoio per l’acqua, scavato interamente nella roccia, nella cui parte più profonda furono allocati i resti delle carceri e delle camere di tortura. Accanto alla torre principale resta una torretta secondaria, a difesa dell’entrata e del ponte levatoio. Recentemente i ruderi del castello sono stati oggetto di restauro.

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