venerdì 23 giugno 2017

Tommaso Romano, "Elogio della Distinzione" (Ed. Thule)

di Marcello Falletti di Villafalletto

Il fecondo e competente Autore nella Premessa, puntualizza come scrivere e pubblicare “un libro come questo è sempre un rischio e un azzardo” e più avanti, evidenziandone lo scopo, aggiunge: «L’obiettivo del testo è indicare ciò che è considerato inattuale e scorretto rispetto ai tempi che viviamo, propriamente per sottolineare la sempre permanente concezione di Aristocrazia, Cavalleria, Nobiltà, intesi come segno e consapevolezza di Stile, per una risvegliata coscienza d’affinamento e qualificazione del soggetto, di Distinzione appunto, rispetto a tutto ciò che è, invece, conforme, standardizzato, massificato nel singolo e nel processo abbrutente informe come drammaticamente avviene nella società del nostro tempo». Dobbiamo riconoscere quanto non abbia torto e, allo stesso tempo, sappia cogliere quasi tutti gli aspetti antropologici e sociologici che osserviamo ogni giorno, rispetto ad una società che idealizza e strumentalizza sempre di più valori e concetti che, continuano invece ad adagiarla, per non dire a seppellirla, in una forma di narcotizzazione totale e generale.  
Sono cambiati i tempi o gli uomini? Verrebbe da chiedersi! La modesta conclusione sarebbe quella di affermare umilmente: tutti e due! Eppure pare strano e controverso come l’uomo moderno, quello del secolo Ventunesimo, che dimostra di aver raggiunto vette inspiegabili, abbia modificato profondamente il senso di giudizio, quello obiettivo di considerare ancora ciò che è valore, quello che è merito e quanto possa esistere di negativo dentro se stesso e nei confronti degli altri. Sembrerebbe che i parametri di giudizio e di raffronto siano scomparsi; annullati in un qualunquismo che viene paventato per uguaglianza che non si avvicina per niente al senso di fratellanza e dove tutto dovrebbe essere posto sopra una bilancia che pende inesorabilmente da una parte e verso l’altra senza alcuna ragione, senza nessuna motivazione o ponderazione interiore. Verrebbe da pensare che l’uomo in generale sia sottoposto ad una narcotizzazione costante che lo rende sopito, adagiato e demotivato a risvegliarsi da un sonno che, a lungo andare, potrebbe annientarlo.
Scrive Publio Ovidio Nasone – (43 a. C. -18ca d. C.) – poeta latino, letterato di successo nato a Sulmona (AQ): «Laudamus veteres, sed nostris utimur annis, / Mos tamen est aeque dignus uterque coli», lodiamo pure gli uomini del passato, ma viviamo ugualmente la vita dei nostri giorni; tanto i costumi antichi come quelli moderni sono ugualmente degni di rispetto ma non dobbiamo però dimenticarci degli insegnamenti che da questi ci provengono. In mezzo a tanti ammaestramenti avremmo bisogno di riscoprirne non solamente il valore ma anche saperne e discernere il reale merito, che il più delle volte sfugge, lasciando spazio sì a quelli nuovi ma se sappiamo crearne alcuni attuali, dovremmo rivalutare anche quelli trasmessici da un passato che invece cerchiamo di abbandonare come non fosse mai esistito o, peggio ancora, facendo del revisionismo inutile, che talvolta sembra più ispirato da preconcetti, demagogie o per paura di sembrare obsoleti. Il nostro stimato Autore si è posto sicuramente non soltanto questi interrogativi e li ha sviscerati, presentandoli con una chiarezza disarmante e, allo stesso tempo, cogliendone quegli aspetti che si vorrebbero far passare per superati; per non dire da cancellare dalla mente dell’uomo razionale e pensante.
Se “la dignità è di tutti e per tutti”, prosegue Tommaso Romano, dobbiamo inequivocabilmente «Tornare all’equilibrio e all’equità vera, alla sostanzialità del linguaggio, come ha insegnato Attilio Mordini, sono fonti necessarie per ristabilire e ridare qualità e organicità al corpo sociale, rivalutando, vivificandole, le naturali gerarchie dalla dimensione asfittica che viviamo, piuttosto che isterilire del tutto, in una prospettiva virtuosa di miglioramento, realmente aperta, facendoci uscire, se solo lo si decidesse, dall’uniforme e non divenendo pedine forse inconsapevoli, strumenti di “élite” oligarchiche e dirigiste che impongono e orientano gusti, opinioni, costumi, mode, oltre che l’economia, la politica e lo stesso diritto, in nome di una astratta e falsa libertà». Ci trova totalmente d’accordo, il carissimo Tommaso, senza essere eccessivamente retorici e tantomeno pedanti.
Il volume corposamente sostanziato nella parte del Florilegio, trova culmine e riscontro nel Saggio di Amadeo-Martin Rey y Cabieses. Avvalendosi della elevata forma stilistica ed espressiva che, da sempre, contraddistingue il nostro Autore siciliano, si completa nella elegante e suggestiva veste editoriale, in parte in bianco e nero, nell’altra a colori, dove fra diversi Enti e Associazioni che hanno concesso il Patrocinio Morale, figura anche il simbolo della nostra antica Accademia Collegio e un mio breve pensiero sull’argomento.

Vogliamo rassicurare il carissimo amico Tommaso Romano che il paventato rischio non solamente ha fatto perdere efficacia all’azzardo paventato, ma ha abbattuto tutti quegli assurdi preconcetti che, riuscendo a essere camuffati da attualità, rendono l’uomo dei nostri tempi sempre più schiavo di se stesso e di quel voler essere diverso, scadendo invece in qualunquismo che sembrerebbe più deleterio che produttore di progresso e cultura. Quindi, per terminare con parole semplici: ottimo lavoro! Ci auguriamo, ora, che possa contribuire a rifare l’uomo dei nostri tempi.

Nazzareno Brandini, "Commentario al libro per i Cavalieri del Tempio" (Ed. Cantagalli)

di Marcello Falletti di Villafalletto

Questo testo, di qualche anno fa, si prende il giusto arbitrio di esaminare in modo fondamentale il Liber ad Miles Templi De Laude Novae Militiae (Libro per i Cavalieri del Tempio, Elogio della Nuova Cavalleria) di san Bernardo di Clairvaux e lo fa attingendo alle fonti storiche, ai testi letterari del tempo; presentandoci una esperta interpretazione che solamente l’Autore avrebbe saputo affrontare in modo preciso e con metodologia straordinariamente scientifica.
Per conoscenza diretta e per lunghi studi personali, possiamo affermare che abbiamo, ripetutamente, avuto l’opportunità di leggere ed esaminare una notevole quantità di testi inerenti all’argomento in oggetto e confermare che, alcuni, oltre ad essere ripetitivi ne hanno anche dato una interpretazione talvolta sommaria, inconcludente e tanto meno accessibile ad una razionalità moderna che domanda invece chiarezza e lungimiranza; qualità e caratteristiche che, il Brandini ha saputo non solamente cogliere e sviluppare in modo adeguato, ma offrendone la giusta dimensione che richiede un testo non sempre di facile lettura e tanto meno di oggettiva rielaborazione.
«Se l’intento di san Bernardo era quello di offrire alla Nuova Cavalleria cristiana il vero modello di nobilitazione dell’umana natura che è la Sequela Christi, vissuta nell’unificazione dello spirito monastico e cavalleresco nella propria interiorità, dobbiamo riconoscere che tale forma di vita e di realizzazione umana e spirituale appartiene ai beni più nobili e preziosi della Chiesa.
A tutti coloro che vivono lo spirito della vera Cavalleria cristiana sono affidati, ieri come oggi, la difesa e la tutela delle inestimabili ricchezze spirituali e culturali del popolo cristiano, come Bernardo di Chiaravalle ha cura di precisare nel capitolo terzo del Libro per i Cavalieri del Tempio: “Affinché i beni celesti non vengano affatto pregiudicati, ma garantiti dalla gloria temporale che circonda la città terrena, a condizione che in essa noi sappiamo riconoscere l’immagine di quella che nei cieli è la nostra madre” »; come ha fortemente evidenziato il Padre Abate dom Michael John (Christopher M.) Zielinski O.S.B. Oliv., offrendoci, in tal senso, un chiaro metodo di lettura di un testo risalente al secolo XII.
Presentare o recensire uno scritto non equivale a spiegarlo completamente ma dovrebbe servire a stimolarne una lettura, attraverso gli aspetti principali e profondi che, il critico ne sa cogliere, istillando nel lettore quella giusta e attenta curiosità che si chiama fame di sapere, voglia di approfondire, ma anche di assaporare le opinioni altrui per poi rielaborarle mettendole a confronto con le proprie. Dobbiamo dire che, Nazzareno Brandini, grazie alle sue particolari e precipue qualità ha saputo cogliere ed analizzare quegli aspetti che ci si attenderebbe da un volume come questo, proprio perché, lui stesso, si è calato nel contesto storico, nell’animo e nella mente del personaggio estensore; cogliendone tutto quello che non avevano fatto altri, seppur valenti scrittori, che hanno affrontato la genesi e lo sviluppo di un fenomeno culturale divenuto, al tempo stesso, antropologico e paradigmatico di un fenomeno che, allo stato attuale, viene giudicato sostanzialmente desueto, per non dire superato.
«Ciò che, con l’intento esortatorio del libro, viene prospettato da Bernardo di Chiaravalle, esula dalle descrizioni contenute, costituendo il risultato in termini di realizzazione umana e spirituale che può essere scritto esclusivamente con la propria vita e l’esemplarità delle proprie azioni. In tal senso il Libro per i Cavalieri del Tempio è stato concepito e ha tutte le caratteristiche di un percorso formativo e di iniziazione spirituale a livelli superiori di realizzazione di sé. – scrive l’Autore nell’Introduzione e prosegue – La formazione monastica e cavalleresca, concepita dall’Abate di Chiaravalle per la Nuova Cavalleria rappresentata dalla Milizia del Tempio, è sostanzialmente finalizzata all’emergere e al consolidarsi di una particolare configurazione della coscienza individuale, come realtà interiore capace di produrre nell’individuo quell’autonomia spirituale che lo porta ad incarnare invisibilmente nella propria vita quel principio superiore che ne è la fonte».
Ed è in questo fondamentale concetto che si denota quel deciso e radicale cambio di concezione che si aveva prima di san Bernardo e che andò allargandosi e diffondendosi nei tempi successivi. Se prima il movimento, o lo spirito della cavalleria, affondava le radici nel servizio, nell’eroicità delle gesta, nella conquista di uno status sociale, da ora in poi sarebbe dovuto diventare una vocazione e una forma mentis, totalmente spirituale, che se, unita al valore personale, alla valenza, all’abilità e alle qualità di ognuno, avrebbe dovuto permettere di vivere una dimensione completamente elevata e radicata totalmente in quel concetto che, il santo abate, esprimeva come personale vocazione, dalla quale “un vero e leale” cavaliere non avrebbe potuto prescindere.
Si apriva così una concettualizzazione nuova, innovativa che avrebbe dovuto sfociare in quel processo di civilizzazione e di sviluppo, umanistico e culturale, introducendo il “barbaro medievale” attraverso quel Rinascimento che avrebbe abbracciato tutte le energie ingegnose insite nell’esistenza dell’uomo, creato ad immagine divina.
È verso questa consapevolezza che l’Autore conduce il lettore e lo fa con quella sagacia e quella finezza culturale di uno che sa scavare profondamente nell’intimo umano e lo conduce, non solamente alla conoscenza di se stesso, ma realizzandosi e a rapportarsi giustamente con i propri simili.
Una lettura nuova, attuale, profonda, pregnante che permette di assaporare un testo tuttora quasi disatteso o letto in modo controverso, non sempre chiaro, mentre questo Autore ci riconduce nell’alveo di una concezione, seppur umanizzata, incanalandola verso una ontologia raziocinante e profondamente stimolante; senza fargli perdere quell’attrattiva che, ogni ognuno di noi, dovrebbe sempre ricercare.

domenica 18 giugno 2017

Perchè Monarchico?

Le monarchie hanno dimostrato, nel lungo corso della storia, di sapersi adattare alle esigenze dei tempi: dalle monarchie feudali a quelle nazionali, a quelle assolute, quelle costituzionali, a quelle par­lamentari. 
Oggi la Monarchia ha, in genere, la funzione di mediatrice fra i privati cittadini e la pubblica autorità (governo), ponendo un limite al potere partitocratico che solo nel Re trova un interlocutore al di fuori delle loro influenze. 
Ora esaminiamo il pensiero del filosofo inglese Tommaso Hobbes (1588 - 1679) nel capitoletto "I diritti del sovrano" della sua opera "Leviatano", che è un pochino polverosa per i nostri tempi, ma sem­pre interessante da analizzare:
I diritti del Sovrano.Si dice che uno stato è istituito quando una moltitudine di uomini si accorda e pattuisce, ognuno con ogni altro, che qualunque sia l'uo­mo o l'assemblea di uomini cui sarà dato, dalla maggior parte, il di­ritto a rappresentare la persona di loro tutti (vale a dire, ad essere il loro rappresentante), ognuno, tanto chi ha votato a favore quan­to chi ha votato contro, autorizzerà tutte le azioni e i giudizi di quell'uomo o di quell'assemblea di uomini, alla stessa maniera che se fossero propri, al fine di vivere in pace tra di loro e di essere protetti contro gli altri uomini.
Da questa istituzione dello stato sono derivati tutti i diritti e le facoltà di colui o di coloro ai quali è conferito il potere sovrano dal consenso del popolo riunito in assemblea. 
In primo luogo, perché fanno un patto, si deve intendere che non sono obbligati da un patto precedente a fare qualcosa che abbia ripugnanza con quello presente. 
Per conseguenza coloro che hanno già istituito uno stato, essendo con ciò vincolati da un patto, a riconoscere le azioni e i giudizi di uno, non possono legittimamente fare un nuovo patto fra di loro per obbedire a qualche altro, In qualunque cosa, senza II suo permesso. Perciò coloro che sono sudditi di un monarca, non pos­sono, senza la sua licenza, liberarsi della monarchia e ritornare al­la confusione di una moltitudine disunita, né trasferire la loro persona da colui che ne sostiene la parte, ad un altro uomo o ad un'altra assemblea di uomini.
Sono Infatti vincolati, ogni uomo verso ogni altro, al riconosci­mento, e ad essere reputati autori di tutto ciò che colui che è già loro sovrano farà e giudicherà idoneo sla fatto; cosicché se qual­cuno dissentisse, tutti gli altri Infrangerebbero II patto fatto con quell'uomo e dò è una Ingiustizia; essi hanno già dato, ognuno per parte sua, la sovranità a colui che sostiene la parte della loro persona e perciò, se lo depongono, gli tolgono quel che è suo e ciò è di nuovo una Ingiustizia.
Inoltre, se colui che tenta di deporre II suo sovrano, è da lui ucciso o punito per tale tentativo, egli è autore della propria punizione, essendo, per istituzione, autore di tutto ciò che il sovrano vorrà fare; e perché è una Ingiustizia per un uomo fare qualcosa per cui può essere punito dalla propria autorità, è Ingiusto anche a questo titolo.
Per contro, alcuni uomini hanno preteso, per disubbidire al proprio sovrano, di fare un nuovo patto, non con gli uomini, ma con Dio; an­che questo è Ingiusto poiché non c'è patto con Dio, se non per la mediazione di qualcuno che rappresenti la persona di Dio ed è tale solo il luogotenente di Dio, che ha la sovranità al di sotto di Dio. Ma questa pretesa di un patto con Dio è una menzogna così evidente, anche nella coscienza di coloro che se ne fanno preten­sori, che non solo è un atto di una disposizione ingiusta, ma anche vile e non da uomo.
In secondo luogo, per il fatto che il diritto di sostenere la parte della persona di loro tutti, è dato a colui che fanno sovrano sola­mente per il patto dell'uno con l'altro, e non di lui con qualcuno di essi, non può accadere che ci sia infrazione del patto da parte dei sovrano, e per conseguenza, nessuno dei sudditi, qualunque sia la trasgressione che s, pretenda di addurre, si può liberare dalla sua sudditanza. E' manifesto che chi è fatto sovrano non fa un pat­to con i suoi sudditi in antecedenza, perché o deve farlo con l'inte­ra moltitudine come una delle parti de! patto, o deve fare diversi patti con ciascun uomo.
Con l'intera moltitudine come una delle parti, è impossibile, perché fino ad allora non sono una persona; e se fa tanti patti diversi quan­ti sono gli uomini, quei patti, dopo che ha avuto la sovranità, sono vani, perché qualunque atto possa pretendere di addurre qualcuno di essi per infrangere il patto, è ad un tempo l'atto di se stesso e di tutti gli altri', perché fatto nella persona e per il diritto dì ognuno di essi in particolare. Inoltre, se qualcuno o parecchi di essi pretendono che ci sia una infrazione del patto fatto dal sovrano alla sua Istituzio­ne, e altri, o un altro dei suoi sudditi, o lui stesso solamente preten­dono che non ci sia stata tale infrazione, in questo caso non c'è al­cun giudice per decidere la controversia: perciò si ritorna di nuovo alla spada ed ogni uomo ricupera il diritto di proteggersi con la pro­pria forza e ciò è contrario al disegno che avevano al tempo della istituzione.
E' una cosa vana perciò concedere la sovranità per il tramite di un patto precedente. L'opinione che qualunque monarca riceva il Suo potere per mezzo di un patto, vale a dire, a condizione, proce­de dal non intendere questa semplice verità, che i patti, essendo so­lo parole ed emissione di fiato, non hanno alcuna forza per obbli­gare, contenere, costringere o proteggere qualcuno se non quella che si ha dalla pubblica spada, cioè dalle mani non legate di quell'uo­mo o assemblea di uomini che ha la sovranità, e le cui azioni sono avallate da tutti e adempiute con la forza dì tutti, riunita in esso. Ma quando un'assemblea di uomini è fatta sovrana, nessuno immagi­na che un tale patto sia passato al tempo dell'istituzione, perché nessuno è così ottuso da dire, per esempio, che il popolo di Roma aveva fatto un patto con i Romani, per tenere la sovranità a tali o tali altre condizioni e che, se esse non fossero adempiute, i Ro­mani avrebbero potuto legittimamente deporre il popolo Romano. Il fatto che gli uomini non vedano che la ragione è simile in una monarchia e in un governo popolare, procede dall'ambizione di alcuni che sono più favorevoli al governo di un'assemblea ma pos­sono sperare di partecipare che non a quello di una monarchia di cui disperano di fruire. In terzo luogo, per il fatto che la maggioran­za ha, con voci di consenso, dichiarato un sovrano, colui che dissen­tiva, deve allora consentire con gli altri, cioè essere contento di ri­conoscere tutte le azioni che farà, oppure essere, giustamente, di­strutto dagli altri.
Infatti se egli è entrato volontariamente nella congregazione di colo­ro che si erano riuniti in assemblea, con ciò ha dichiarato in modo sufficiente il suo volere (e perciò tacitamente pattuito) di stare a ciò che avrebbe ordinato la maggioranza;perciò se rifiuta ciò, o protesta contro qualche decreto di esso, fa una cosa contraria al suo patto, e perciò ingiusta. Sia che appartenga o no alla congregazione, sia che il suo consenso sia richiesto o no, deve sottomettersi ai decreti di essa, oppure essere lasciato nella condizione di guerra in cui si tro­vava prima e in cui poteva essere distrutto, senza ingiustizia, da qual­siasi uomo. In quarto luogo, poiché ogni suddito è per questa istitu­zione, autore di tutte le azioni e di tutti i giudizi de! sovrano isti- tu ito e ne consegue che, qualunque cosa egli faccia, non può ingiù- giare alcuno dei suoi sudditi, né deve essere accusato di ingiustizia da alcuno di essi, infatti chi fa qualcosa per autorità ricevuta da un altro, non ingiuria in ciò quello per la cui autorità egli agisce; ma per que­sta istituzione dello stato, ogni particolare è autore di tutto ciò che il sovrano fa, e per conseguenza chi si lamenta di un'ingiuria ricevu­ta dai suo sovrano, si lamenta di ciò di cui Egli stesso è autore;non deve perciò accusare di ingiuria alcun altro se non se stesso, e neppu­re se stesso, perché arrecare ingiuria a se stessi è impossibile. E' vero che coloro che hanno il potere sovrano possono commettere ini­quità, ma non ingiustizia o ingiurie in senso proprio, in quinto luogo, in conseguenza di ciò che si è detto ultimamente, nessun uomo che abbia il potere sovrano può giustamente essere mandato a morte o punito in qualsiasi altro modo dai suoi sudditi, infatti, dato che ogni suddito è autore delle azioni dei suo sovrano, egli punisce un altro per le azioni commesse da lui stesso.
E per ii fatto che il fine di questa istituzione è la pace e la difesa di tutti, e che chiunque ha diritto ai fine ha diritto ai mezzi appartiene di diritto a qualunque uomo o assemblea che abbia la sovranità di essere giudice sia dei mezzi che sono atti alla pace e alla difesa, sia degli ostacoli e dei disturbi che vi si frappongono, e di fare tutto ciò che penserà sia necessario che venga fatto, sia anticipatamente per preservare la pace e la sicurezza, prevenendo la discordia all'in­terno e l'ostilità all'esterno, Sia per riacquistare, quando si sono per­dute, la pace e la sicurezza.

venerdì 16 giugno 2017

« Legittimismo» italiano?

Proponiamo il testo di una lettera dello storico conte Gioacchino Volpe pubblicata il 16 aprile 1949, sul quotidiano di Roma ”Il Tempo”.
Caro direttore, più di una volta mi è capitato di leggere o sentir parlare, con tono di irrisione, di «legittimismo» e «legittimisti» a proposito degli attuali monarchici italiani. Giusta irrisione, se realmente esistessero un legittimismo e dei legittimisti in Italia. Legittimismo sarebbe, grosso modo, il riconoscere ad un re o ad un ex re un diritto proprio sul trono, da mantenere o recuperare anche quando sia venuto a mancare il fondamento popolare su cui poggia: di­ritto di origine patrimoniale o divina. Ora l’età dello Stato patrimoniale, l’età della Monarchia di diritto divino è morta da un pezzo: né sembra che debba risorgere (per quanto nulla sia da escludere nella libera e tortuosa storia degli uomini, che una volta conobbe l’impero romano e poco dopo il travaglio della età barbarica, la dissoluzione e la rifusione della società...).
Più che altrove questo legittimismo è morto in Italia, nell’Italia che fece il Risorgimento. Qui, un re, il Re che la nazione si diede, negò esso per primo, col suo stesso collaborare alla demolizione dei vecchi troni e col ricevere dal popolo il regno, ogni diritto che non fosse fondato su queste nuove basi popo­lari. E quanto al popolo italiano, esso non conferì il trono ai Savoia ricono­scendo un loro qual si voglia diritto, se ne togli quello, tutto morale, che pote­va nascere dall’opera, allora insostituibile, prestata da essi per dare indipen­denza e unità alla nazione; ma lo conferì esercitando un proprio diritto. Esso, dandosi un re, creando uno Stato nazionale monarchicamente costituito, obbe­diva ad un sentimento profondo, particolarmente vivo nelle grandi masse, e ad esigenze intrinseche dell’impresa che si voleva compiere.
La monarchia si affermò in Italia come fatto naturale e spontaneo, senza coartazione di altri principi e programmi, anzi dopo il fallimento di altri prin­cipi e programmi come sbocco necessario di un travaglio cinquantennale: vo­lontà della storia o giudizio di Dio, non arbitrio di classi o partiti. I trenta anni di propaganda mazziniana, agendo potentemente e consapevolmente nel senso della unità, agirono essi stessi, inconsapevolmente, nel senso della mo­narchia, sola dimostratasi capace di dare quella unità, sola capace di non su­scitare reazioni di popolo. Dico «inconsapevolmente»: ma non sono da dimenti­care la chiara e ben motivata evoluzione, nel decennio 1849-59, di tanti anti­chi mazziniani verso la monarchia; non lo stesso atteggiamento di Mazzini in più di un’occasione. Scriveva egli nella primavera del 1866, incoraggiando gli arruolamenti dei volontari sotto Garibaldi, sebbene agli ordini del re, e rispon­dendo al riluttante Egisto Bezzi: «Mi duole assai del dissenso vostro e degli amici; ma confesso non intenderlo. Ho predicato con voi tutti guerra di inizia­tiva popolare: veneti e italiani non l’hanno voluta. Intanto viene guerra gover­nativa. E' guerra per Venezia, contro l’Austria, con un fine nazionale. E' chiaro che dobbiamo prendervi parte. Il continuare a dire vogliamo guerre di iniziati­va popolare, quando nessuno risponde, in verità tocca il ridicolo».
Così da queste scaturigini, nacque la monarchia in Italia; e da esse la mo­narchia derivò non debolezza, ma forza. In Italia poteva esserci, e ci fu, un le­gittimismo borbonico e magari lorense o estense-asburgico o papalino; non poteva esserci e non ci fu e neppur ci sarà un legittimismo monarchico-sabaudo, negato nel momento stesso che il regno si costituiva e per il modo come si costituiva.
E allora? Allora, se ci sono oggi in Italia dei monarchici e parrebbero molti e molti milioni, stando al referendum, e da allora forse piuttosto cresciu­ti che diminuiti, certo essi fondano il loro monarchicismo su altri motivi e ra­gioni che non siano quelli della legittimità. E sono poi gli stessi motivi e ragio­ni che già operarono nel 1859-60, accresciuti, arricchiti dall’esperienza di ot­tanta anni di regime monarchico che sono stati di progresso grande per l’Ita­lia, di freno all’estremismo dei partiti, di crescente adesione di popolo alla vita della nazione, cioè di unità morale e sociale oltre che territoriale. E oggi altri motivi e ragioni si sono aggiunti, purtroppo quasi solo negativi.
Diciamo la verità: che cosa è questa nostra repubblica italiana, nata come è nata, dalla sera alla mattina, sotto l’imperio di passioni tumultuose, ma su­perficiali, suscitate dalla sconfitta, di interessi antitaliani, di programmi sov­vertitori, di basse opportunità? Non escludo antiche e sincere ma ristrette convinzioni e aspirazioni. Ma questa repubblica l’hanno covata, riscaldata col loro fiato, più che altro, i «liberatori» a cui premeva di annichilire in Italia ogni centro di resistenza ideale; comunisti che nella monarchia vedevano degli argi­ni al loro totalitarismo; non pochi plutocrati che hanno creduto deviare da sè la torbida onda di tanti risentimenti, scaricandola contro la monarchia; «popo­lari» a cui sorrideva calare in nuovi stampi l’Italia del 1860 e del 1870; non­ché dozzine di scrittori e scrittorelli in funzione di storici, messisi per la occa­sione a fare un ridicolo processo a casa Savoia.
E altre domande si affacciano. Che cosa è questa straripante vita di par­tito e di partiti o meglio fazioni, poiché ad essi manca ogni senso del limite? Che cosa è questa Italia senza un visibile capo, creato da tutti e da nessuno, che immane in tutti e trascende tutti, in cui si ritrovino, come in tanti momen­ti gravi o lieti si sono ritrovati, quanti italiani vivono e lavorano, dalla Sicilia alla Val d’Aosta, dall’Argentina alla sponda orientale del Mediterraneo? Non minaccia, essa, di perdere corpo e svaporare nel nulla o risolversi in mera ma­terialità, senza questo capo, come una religione senza templi, senza sacerdoti, senza riti, senza simboli? Basteranno a tenerne viva l’immagine e il sentimen­to il carabiniere, l’agente delle imposte, un presidente o un governo che esco­no anch’essi da partiti e durano cinque anni o cinque mesi o cinque giorni? E in un paese, in una città che ha l’alto onore di essere sede del grande capo della Chiesa, chi gli sta, non contro, ma di fronte, come capo dello Stato, mo­dernamente laico? Il discorso potrebbe seguitare.
Questo ed altro diceva a me l’altro giorno un amico monarchico, ed io a lui. E concludevamo: legittimismo, dunque, no: ma convinzione nostra di un insostituibile compito assolto dalla monarchia in Italia. Noi potremo essere discussi e combattuti: ma per quel che siamo, non per quel che altri immagina o vorrebbe che noi fossimo.
Grazie dell’ospitalità e credetemi vostro, eccetera.

da: "Il Pungolo", n. 3, Settembre 1989

Giambattista Vico e l’Europa

Nella «Scienza nuova» (capitolo III) Giambattista Vico scriveva:
«Ma in Europa, dove dappertutto si celebra la religione cristiana (che insegna un’idea di Dio infinitamente pura e perfetta e comanda la carità in­verso tutto il genere umano), vi sono delle grandi monarchie né lor costumi umanissime. Perchè le poste nel freddo Settentrione (come da cinquanta anni fa furono la Svezia e la Danimarca, così oggi tuttavia la Polonia e ancor l’In­ghilterra), quantunque siano di Stato monarchie, però aristocraticamente sem­brano governarsi; ma se i1 naturale corso delle cose umane civili non è loro da straordinarie cagioni impedito, perverranno a perfettissime monarchie.
In questa parte del mondo sola, perchè coltiva scienze, di più sono gran numero di repubbliche popolari che non si osservano affatto nell’altre. Anzi, per lo ricorso delle medesime pubbliche utilità e necessità vi si è rinnovellata la forma delle repubbliche degli etoli ed achei; e, siccome quelle furon intese da’ greci per la necessità d’assicurarsi della potenza grandissima de’ ro­mani, così han fatto i Cantoni Svizzeri e le Province unite ovvero gli Stati d’Olanda, che di più città libere popolari hanno ordinato due aristocrazie, nel­le quali stanno unite in perpetua lega di pace e guerra. E i1 corpo dell’imperio germanico è egli un sistema di molte città libere e di sovrani principi, il cui capo è l’imperatore, e nelle faccende che riguardano lo stato di esso imperio si governa aristocraticamente.
E qui è da osservare che sovrane potenze, unendosi in lega, o in perpe­tuo e a tempo, vengan esse di sè a formare Stati aristocratici, nè i quali entra­no gli anziosi sospetti propri dell’aristocrazie, come si è sopra dimostrato. Laonde, essendo questa la forma ultima degli Stati civili (perchè non si può intendere in civil natura uno Stato il quale a si fatte aristocrazie fusse supe­riore), questa stessa forma debb’essere stata la prima, ch’a tante pruove ab­biano dimostrato in quest’opera che furono aristocrazie di padri, re sovrani delle loro famiglie, uniti in ordini regnanti nelle prime città. Perchè questa è la natura de’ principi: che da essi primi incomincino ed in essi ultimi le cose vadano a terminare.

Ora ritornando al proposito, oggi in Europa non sono d’aristocrazie più che cinque, cioè Vinegia, Genova, Lucca in Italia, Ragugia in Dalmazia e No­rimberga in Lemagna, e quasi tutte son di brevi confini. Ma dappertutto l’Eu­ropa cristiana sfolgora di tanta umanità, che vi si abbandona di tutti i beni che possano felicitare l’umana vita, non meno per gli agi del corpo che per gli piaceri così della mente come dello animo».

da: "Il Pungolo", n. 6, gennaio 1991