lunedì 19 ottobre 2015

Pena Etrusca per il Senato (e per l’Italia)

di Aldo A. Mola

“Vanitas vanitatum. Tutto è vanità. Col passare degli anni che verranno tutto sarà dimenticato. E, come il saggio, così muore lo stolto”. Parola di Qohelet, figlio di David, re di Gerusalemme (Ecclesiaste, II, 15-16). Chi ricorderà le oche giulive da anni starnazzanti nelle Aule parlamentari, i patres goliardici e il forbito eloquio (parlato e scritto) dell'ex presidente della repubblica Napolitano Giorgio? L'assemblea monocamerale è stata sempre obiettivo dei despoti: da Cromwell alla Convenzione repubblicana francese del 1792, dal Soviet di Lenin, al regime stalinista e a Kruscev che represse sanguinosamente l'insurrezione degli ungheresi, plaudito dai poi sedicenti miglioristi. Tutto verrà dimenticato. Ma prima che sprofondi nell'oblio, la morte del Senato e lo scempio della Costituzione meritano un epicedio.
 “Senatori boni viri, Senatus mala bestia” dicevano i Romani, che la sapevano lunga. Dunque, l'attuale senato  (minuscola d'obbligo) non conta più nulla. Valgono poco i suoi membri indagati, rinviati a giudizio e tuttavia sempre insediati nei loro da noi remunerati stalli. Contano meno ancora certi senatori a vita. Un mondo è finito. Il Senato è morto. Pugnalato con spensierato rito sadomaso dai suoi stessi “membri”, d'ora in poi condannati a vagare nudi sino allo scioglimento dell'assemblea. Che cosa rappresentano adesso che han votato di essere abusivi? Con quale spocchia codesti senatori eserciteranno il mandato che essi stessi hanno cancellato? Allora, meglio farla finita con questa caricatura di senato. Liberi tutti, tranne i patres, e sono molti, che debbono rispondere di reati comuni, a cominciare da alcuni etruschi che hanno favorito il colpo di mano.
Costituzione imperfetta o imperfetto chi ne abusa?
Di imperfetto in Italia non era e non è il bicameralismo ma l'uso che della Costituzione hanno fatto partiti, congreghe e profittatori vari, uniti nell'obiettivo di divaricare le istituzioni dai cittadini e viceversa. Ci stanno riuscendo. Il colpo basso attuato con l'eliminazione dell'elettività diretta della Camera Alta accelera la deflagrazione dello Stato. Basta leggere il testo arruffato approvato dai “senatori” per capire che questi patres non sanno quello che fanno. Del resto camminano nel solco fangoso della repubblica nata il 2-3 giugno 1946. Al netto di brogli vari, la repubblica ottenne il “sì” dal 42% degli aventi diritto al voto. Nacque minorata ancor più che minoritaria. La sua soglia è simile al famoso 41% sbandierato da Renzi Matteo per soggiogare il partito democratico (minuscola d'obbligo) e gli abitanti del Paese di Cuccagna (festa, farina e forca). Conniventi anche quando disertano le urne, oggi tanti italiani scodinzolano all'annuncio che potranno spendere le banconote nascoste per anni chissà dove, con occhio gonfio d'invidia per russi e cinesi di passo, dai portafogli sempre gonfi di sacrifici altri.
Dall'Unità nazionale (odiata da clericali, cattocomunisti e fautori del monocameralismo imperfetto: prono al tiranno di turno), il Senato ha raccolto il meglio dell'Italia: 2400 persone in cento anni. Quasi nessun cittadino di vero talento ne fu escluso. Ma quei senatori, vitalizi, erano nominati dal re, d'intesa con il governo, che a sua volta aveva antenne ovunque e sceglieva il grano dal loglio. Proprio perché rappresentò l'eccellenza del Paese, il Regio Senato rimane tuttora privo di una storia. Non se n'è occupato nessuno. Né il Senato stesso (pur dovizioso), né le Università, né tante case editrici pronube verso chiacchiere di destra, sinistra e centro, ma solo repubblicane. Forse il Premio Acqui Storia dovrebbe promuovere un'iniziativa specifica: una storia vera del Senato, a suo tempo presieduto  dall'acquese Giuseppe Saracco, affiancato da  Maggiorino Ferraris “patron” della “Nuova Antologia”, da ricordare nel 150° della rivista diretta da Cosimo Ceccuti.
Epicedio, dunque. Questo parlamento, eletto in contrasto con la Carta della Repubblica  come sentenziato dalla Corte Costituzionale, ha titoli per modificare la Costituzione o dovrebbe pudicamente astenersene? Con le decine di inquisiti da cui è popolato, con le centinaia dei cambiacasacca da cui è formato, ha esso l'autorevolezza giuridica, politica e morale per varare le troppe leggi che stanno squassando l'identità del Paese, dalla cittadinanza al diritto di famiglia e oltre?
Il 50% degli italiani non va più alle urne: parte per indifferenza (lo Stato è morto da tempo in molte regioni e nelle coscienze di tanti cittadini che gli avevano dato fiducia e dedicato decenni di vita per avito senso del dovere), parte per protesta. Se non fosse per la Lega e il Movimento 5 Stelle i votanti sarebbero il 30-35% degli aventi diritto contro il 60% dell'età monarchica. I cittadini voltano le spalle alle istituzioni, ormai allo stremo. Mancano solo l'eccidio di Prina del 1814 e l'assalto ai forni.
Il discredito nasce anche dal malgoverno delle piccole cose, dallo scempio del pubblico denaro mentre il ceto medio, ossatura della società, è stato precipitato nell'indigenza. Perciò abusi e sprechi sono divenuti intollerabili. Non è questione di destra o di sinistra ma di decenza, di civiltà. Il re viveva della Lista Civile, stabilita dal Parlamento (maiuscolo  d'obbligo). In “I Capi dello Stato” (ed. Gangemi) Tito Lucrezio Rizzo ricorda che il presidente provvisorio della repubblica, Enrico De Nicola, napoletano, monarchico e liberale, indossava un cappotto rivoltato. Del suo successore, Luigi Einaudi, piemontese, monarchico e liberale, si ricorda che domandò ai commensali chi gradisse la mezza mela che stava per tagliare. Entrambi erano stati senatori del regno: un modello di serietà e di sobrietà per i “repubblicani tutti d'un pezzo”.
Per far trangugiare lo scempio della Costituzione a un'opinione pubblica sempre più indignata il governo attuale ha subordinato la riforma della Costituzione a referendum confermativo, da celebrare tra un anno, dopo le elezioni amministrative della primavera 2016: uno stratagemma per rinviare le votazioni che contano, quelle per l'elezione del prossimo Parlamento (se ancora ce ne sarà uno). Eppure tempo è venuto di restituire sovranità piena ai cittadini sulla Carta saccheggiata dal governo e dai suoi segugi: non solo per approvare o cassare lo sciagurato svilimento del senato, ma sulla forma stessa dello Stato. Nel primo Ottocento Gian Domenico Romagnosi, tra i supremi esponenti del pensiero repubblicano in Europa, scrisse che ogni generazione ha diritto di decidere la forma di stato nella quale riconoscersi. Lo pensava anche Melchiorre Gioja, autore del celebre saggio “Quale dei governi liberi meglio convenga all'Italia”. Dopo 70 anni questa rugosa repubblica è al crepuscolo. La sovranità va restituita ai cittadini. Nell'unico modo leale: l'abolizione, per referendum, dell'articolo 139 della Carta, che dichiara immodificabile la forma dello Stato. Forse che la Gran Bretagna, la Spagna, il Belgio, la Danimarca, la Svezia, la Norvegia ecc. ecc. sono meno civili dell'Italia solo perché sono Stati monarchici?
La soppressione del Senato elettivo ha messo a nudo la pochezza dell'attuale “dirigenza” politica: una commedia dell'arte. La repubblica è nuda, dalla cintola in su o in giù, a seconda di dove si collochi l'ex Camera Alta. Il senato moriente è comunque la pena etrusca per la repubblica: una riforma caparbiamente voluta e votata, infatti, da una manciata di etruschi. Il cadavere del senato putrescente corromperà  il poco che resta del corpo vivo.                



sabato 10 ottobre 2015

L’insorgenza in Sicilia, il tentato sbarco di Murat del settembre 1810

di Antonino Teramo

Con il termine "insorgenza" si è soliti denominare quel vasto fenomeno di rivolta armata popolare che interessò pressoché tutta la penisola italiana dal 1796 al 1814 in contrapposizione alle truppe francesi occupanti e alle élite "giacobine". In effetti il termine "giacobino" appare impreciso e, a buon diritto, se lo si interpretasse alla lettera bisognerebbe limitarsi solo agli anni compresi fra il 1796 e il 1799, considerando solo i "giacobini italiani", cioè coloro che si manifestarono partigiani della rivoluzione e intenzionati a raggiungere il potere nei luoghi in cui la Francia rivoluzionaria aveva imposto con la forza militare il proprio dominio, spodestando le vecchie case regnanti. La definizione può però essere estesa senza errare anche a tutto il periodo napoleonico, perché le idee ugualitarie e nazionalistiche dei "giacobini", in forme varie ma identiche nella sostanza e nella forma, ne furono il Leitmotiv . Bisogna anche rilevare come nel caso dell’insorgenza si tratti di un fenomeno non esclusivamente italiano, ma più propriamente europeo, la cui datazione può quindi porsi in un periodo che va dal 1792, data del primo scontro tra la Francia e la prima coalizione di Stati europei antirivoluzionari, alla caduta di Napoleone Bonaparte (1769-1821) nel 1814.
Le dimensioni delle insorgenze furono vastissime: i più conoscono soltanto alcuni momenti rilevanti ma spesso sfuggono loro le migliaia di piccoli episodi che, a studi più approfonditi, si rivelano rilevanti anche dal punto di vista della partecipazione popolare. Si tratta di fatti studiati a volte solo in ambito locale oppure relegati in qualche nota a margine di studi accademici. A volte sono stati gli studiosi di storia militare a chiarire le dinamiche di episodi sconosciuti di cui si era persa memoria.
Ma, una volta chiarite tali dinamiche, interpretare le insorgenze è stato da sempre un compito difficile. Fin dal loro manifestarsi, paradossalmente, furono spesso le stesse potenze schierate contro la Francia rivoluzionaria e contro Napoleone a mostrare una certa ambiguità nei confronti degli insorgenti, italiani e non, e anche la stessa intellettualità contro-rivoluzionaria del tempo non ebbe subito simpatie verso questi popolani insorti spontaneamente e quasi senza rendersene conto, quasi "moti primi"", movimenti involontari e irrazionali (1).
Naturalmente, se ne vogliamo dare una interpretazione più corretta occorre andare più a fondo, considerando non soltanto i fatti accidentali ma anche le premesse più profonde del fenomeno.
Quindi pare necessario annotare come negli anni compresi fra il 1796 e il 1814 in Italia la lunga serie di rivolte popolari che interessano tutte le regioni dal Tirolo alla Calabria, abbiano un carattere marcatamente antigiacobino e, in radice, cattolico: una risposta inconsapevole, ma allo stesso tempo motivata, a quella serie di avvenimenti che nell’ultimo scorcio del XVIII secolo hanno attuato un nuovo modo di intendere i rapporti sociali, politici e religiosi. Che per il popolo si traduce nell’introduzione di pratiche di vita lontane da quelle consuete, permeate di cristianesimo, che ribaltavano forzatamente le prospettive e le gerarchie dei valori tradizionalmente radicati nella cultura dei ceti subalterni.
Le ultime fasi di questo processo, avvertito soprattutto come scristianizzazione, possono essere individuate nella cultura illuministico-razionalistica che ha prodotto il dispotismo "illuminato" del tardo Settecento e, infine, la Rivoluzione in Francia. L’insorgenza rappresenta una risposta, spontanea e armata, a questo processo di cambiamento per molti aspetti rivoluzionario. La sua frammentarietà è lo specchio della società del cosiddetto "antico regime", dove le singole comunità conservavano la propria autonomia, anche di azione. Rivela, altresì, per la prima volta, i caratteri dell’identità italiana, sintesi di universalismo religioso e di particolarismo politico.
È bene precisare in questo contesto, che per insorgenza si intende non solo la resistenza popolare spontanea, ma anche l’azione svolta contro i francesi e i giacobini da gruppi armati con una propria organizzazione, con direzione militare e guida anche politica, con uniformi e strategia, con stabili collegamenti con i comandi degli eserciti delle potenze coalizzate. In taluni casi si tratta di forme di coscrizione ufficiale e temporanea per la difesa territoriale come era proprio degli Stati pre-rivoluzionari (2): talora questi i gruppi armati organizzati prendo nome di "masse" — così sono definiti in molti documenti dell’epoca (3) —, e utilizzati in un quadro bellico più ampio (4).
2. Messina 18 settembre 1810
Il 18 settembre 1810 un’area di circa dieci chilometri della costa a sud della città di Messina fu interessata da un tentativo di sbarco di truppe francesi e napoletane per ordine di Gioacchino Murat (1767-1815), cognato di Bonaparte e insediato dall’impera-tore dei francesi sul trono di Napoli. Ancorché a fasi alterne, la conquista della Sicilia rientrava nei programmi bellici di Napoleone, che, fra il dicembre del 1807 e il gennaio del 1808, aveva programmato uno sbarco, ma poi aveva messo da parte il piano e lo aveva rimandato sine die (5) per il rischio che comportava l’impresa e per i continui mutamenti degli scenari bellici internazionali. Murat, che desiderava da tempo attuare la conquista della Sicilia, scriveva nel marzo del 1810 al suo ministro di Guerra e Polizia, Hector Daure (1774-1846), che l’Imperatore gli aveva promesso venticinquemila uomini per l’impresa (6). Napoleone aveva approvato la spedizione come diversivo per dissuadere i trasferimenti di truppe inglesi dalla Sicilia alla Spagna insorta, ponendo tuttavia limitazioni tali da rendere di fatto irrealizzabili le intenzioni di Murat (7). Napoleone, infatti, non aveva dato per intero il comando della spedizione a Murat. Due terzi delle forze erano francesi — quindicimila su ventiduemila uomini. L’unico contingente di cui Murat poteva disporre direttamente era quello "napoletano", composto comunque per due terzi da francesi — guardia reale e reggimenti côrsi — e francesi erano anche il comandante, generale di divisione Jacques Marie Cavaignac (1773-1855), e il suo capo di Stato Maggiore, tenente colonnello François-Gabriel-Edme Desbret (1774-1843). A metà di settembre del 1810 i forti venti da sud costrinsero la flotta inglese a rompere la linea di ancoraggio e a ritirarsi nella rada di Messina. Il 15 settembre il generale Paul Grenier (1768-1827) mise a punto un piano di sbarco che prevedeva tre obiettivi-chiave: prendere la punta del faro, cioè Capo Peloro, e conquistare il locale campo trincerato; sbarcare a Sant’Agata — contrada sulla costa a nord di Messina — e risalire i colli fino a Curcuraci, quindi conquistare il campo inglese; invece Cavaignac con la divisione "napoletana" doveva compiere una diversione venti chilometri più a sud di Messina, sbarcando fra Scaletta Zanclea e Santo Stefano Briga (8). Fu solo questa terza fase dello sbarco che fu messa in atto secondo un piano strategico destinato al fallimento. La tempesta che aveva costretto gli inglesi a ritirare le proprie navi costrinse però anche le barche francesi a non provare lo sbarco fino al 17 settembre quando fu dato l’ordine di agire. Precedendo Cavaignac con quindici barche cariche di côrsi, i primi soldati sbarcarono verso le due del mattino del 18 settembre, tre miglia più a nord del punto stabilito, alla foce di un torrente dove erano stati spinti dai venti e dalla corrente (9). Trascorse alcune ore in attesa del resto della divisione, fu mandato in ricognizione un certo capitano Pianelli, che fu accolto a fucilate nel villaggio di Santo Stefano Briga dai miliziani — i volontari siciliani — e dai loro familiari e fu quindi costretto a ripiegare sulla spiaggia. Alle quattro e trenta circa arrivò sulla costa il resto della divisione e circa un quarto d’ora dopo i cinque battaglioni erano in formazione e una parte dei côrsi fu mandata in avanscoperta sulla strada costiera verso Messina.
La milizia locale nel frattempo aveva dato l’allarme, ma il generale inglese James Campbell (1763-1819), sospettando che fosse un diversivo, mandò soltanto un picchetto di cavalleria, che s’imbatté nei côrsi e la sorpresa fu tale che gli inglesi poterono attraversare la colonna e galoppare senza essere inseguiti da alcuna fucilata. I côrsi proseguirono fino al villaggio di Contesse, a due miglia dal punto di sbarco, e con la luce del giorno poterono osservare i nemici che si preparavano a ingaggiare battaglia.
Nel frattempo gli altri francesi si erano schierati lungo una diga sul torrente Santo Stefano con il mare alla destra. Desbret ordinò che si spostassero sull’altura coperta di macchie di vegetazione, scelta che si rivelò fatale in quanto le macchie erano piene di miliziani e di contadini armati: i côrsi ebbero vari morti e feriti, ma riuscirono a fare cinquanta prigionieri, che soltanto grazie agli interventi dei comandanti non furono uccisi sul posto. Nel frattempo Cavaignac aveva ricevuto l’ordine di reimbarcarsi ed egli stesso ebbe il tempo di ritirarsi.
Ma i fatti d’arme proseguirono ancora fino alla totale disfatta francese con la perdita del reggimento côrso. Alla fine gli inglesi ebbero tre feriti, i miliziani e i contadini un morto, un disperso e cinque feriti. Della divisione "napoletana" 795 uomini caddero prigionieri. Fatti sfilare per Messina, furono esposti agli insulti della popolazione e poi trasferiti a Malta. Il 10 ottobre, a seguito di un esposto di una suddita napoletana residente a Messina, il ministro Daure informò Murat dei saccheggi commessi dai côrsi nelle poche ore in cui erano rimasti sul suolo siciliano (10). Stuart donò ai contadini i fucili catturati ai côrsi, il 18 ottobre l’ammiraglio inglese George Martin (1764-1847) consegnò a Re di Sicilia Ferdinando III (1751-1825) (11) la bandiera del reggimento côrso sconfitto, che fu in seguito esposta nella cattedrale di Messina ed è conservata ancora oggi nell’Archivio di Stato della città. Così, in estrema sintesi, il tentativo di sbarco delle truppe murattiane.
3. I Volontari Siciliani
Ma chi erano quei miliziani che per primi, insieme alla gente del luogo, si opposero allo sbarco franco-napoletano? Chi sono questi volontari siciliani? E quale fu la reale partecipazione dei contadini e dei popolani?
I miliziani erano un corpo armato e regolare costituito da volontari siciliani assoldati su mandato del Re da alcuni esponenti dell’aristocrazia isolana fra le persone con attitudini alle armi (12). È possibile ritenere che in questo caso ci si trovi di fronte a "masse", a formazioni semiregolari, frutto di un arruolamento organizzato di volontari contro un nemico riconosciuto. La partecipazione effettiva della popolazione e il peso esercitato nelle operazioni militari dalla milizia è ridimensionato nel volume edito dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito Italiano (13), in cui si ritiene che sia il governo borbonico, sia il comando inglese, enfatizzarono molto il contributo dato dai volontari e soprattutto dai paesani armati. Il villaggio di Santo Stefano, da cui si era fatto fuoco, fu preso alla baionetta dal capitano Pianelli, che fece prigionieri una ventina di paesani. Più efficace sembra essere stata la resistenza sulla spiaggia di Mili, dove molti soldati côrsi furono uccisi a fucilate mentre si ritiravano nel bosco del cavaliere Calamara, dove si arresero poi agli inglesi. Il comandante dei côrsi, maggiore Venturini, assieme al tenente colonnello Desbret, impedirono ai propri soldati di passare alle armi una cinquantina di prigionieri, inclusi vari paesani armati (14). Dal rapporto fatto all’aiutante maggior generale e ispettore della 3a Divisione Volontari Siciliani Valdemone, brigadiere Giovanni Capece Minutolo, principe di Collereale (1772-1827), dal tenente colonnello Giacomo Natoli, "direttore" (15) del Reggimento Cacciatori Forìe [ovvero i dintorni] di Messina, si apprende che egli e il maggiore Emanuele Reyes si limitarono a raccogliere quattrocento uomini del 1° battaglione nella fiumara di Camaro rimanendovi fermi in attesa di ordini. Altri duecento furono riuniti nei luoghi di sbarco dall’aiutante maggiore Gaetano Cardinale, ma a dirigere gli scontri sulle spiagge di Mili, Galati e Santo Stefano furono in realtà tre sergenti. Il sergente Topica vantò la cattura di quattordici prigionieri e la presa di due tamburi guarniti in ottone, ma il rapporto menziona un solo caduto — figlio di un volontario di Santo Stefano —, cinque feriti — due volontari, due figli di volontari e un maestro "fabbricatore" — e un disperso, oltre alla perdita di quattro fucili rotti o rubati. Si sa inoltre che due compagnie di siciliani furono aggregate alla colonna militare anglo-tedesca — cioè composta anche da reparti tedeschi, la King’s German Legion (16) — che intervenne all’alba di quel 19 settembre.

Fu Stuart a gestire i rapporti d’immagine regalando la bandiera del reggimento côrso al Re, che la fece esporre in cattedrale a Messina, quasi fossero state le milizie siciliane a catturarla. Regalò ai contadini le armi prese al nemico, che tuttavia poi furono ritirate dal governo borbonico. I dati della partecipazione popolare vanno quindi forse ridimensionati ma non cancellati totalmente, accanto alle milizie siciliane è infatti indubbia la partecipazione di popolani: figli o parenti dei miliziani o contadini. Pare certo però che con la sola azione dei volontari siciliani e dei popolani i franco-napoletani non sarebbero stati sconfitti. La vittoria militare fu principalmente inglese. Non sono neppure da trascurare evidenti "indizi" di predisposizione a una insorgenza spontanea. Quando infatti nell’estate del 1810 Murat cominciò a rendere manifesti i suoi piani, si manifestò una reale volontà di resistenza. I messinesi lavorarono volontariamente alla sistemazione delle batterie inglesi e un decimo della popolazione fu registrato per i turni di guardia nei dodici quartieri istituiti il 2 luglio dalla deputazione suprema di sicurezza pubblica (17). Anche il Re non mancò di invitare il popolo ad aggiungere i loro "aiuti, assistenza e mezzi" alle forze reali e alleate e di tenersi pronti di unirsi alle truppe per opporsi all’invasione.
4. Gl’inglesi in Sicilia e a Messina, un tentativo d’interpretazione (18)
«Chi su brutti sti facci d’impisi
senza scarpi, cosetti e cammisi:
quand’i viditi, tiràtici ’n panza.
Viva lu ’Ngrisi, mannaia la Franza!" (19).
Questa breve filastrocca che il popolo di Messina recitava in quei giorni è il sintomo di come fosse avvertito il pericolo francese e di come la protezione e la presenza inglese in città fosse ormai radicata e stabile. L’ambiente culturale messinese di quegli anni è difficile da descrivere in poche parole, ma certamente il fermento giacobino da diversi anni era arrivato in riva allo Stretto e lo scontro fra la propaganda inglese e quella franco-napoletana era sempre vivo. Con il consolidarsi della presenza inglese in Sicilia si creò tutto un ambiente culturale che potremmo definire anglo-siciliano: ufficiali che si trasferirono in Sicilia con tutta la famiglia; commercianti che svilupparono i loro affari attorno allo sviluppo economico suscitato dalla guerra in corso; grammatiche e vocabolari inglesi insieme a libri tradotti dall’inglese all’italiano testimoniano dell’influenza in quegli anni della cultura inglese nell’Isola. E, insieme alle persone, ai commerci e ai libri arrivarono anche gli stili di vita, i costumi propri della vita inglese, che portarono un fermento di modernità dentro la vita messinese e siciliana (20). La Gazzetta Britannica di Messina rappresenta uno degli esempi più evidenti dell’indirizzo culturale che gli inglesi vollero imprimere alla città. Da un lato, infatti, vi era l’azione culturale antinapoleonica, che fungeva da argine al divulgarsi delle idee della Rivoluzione Francese nella popolazione, dall’altro lato, vi era invece la critica, velata dalle argomentazioni legittimistiche, al regime borbonico, tanto diverso per stile e per leggi dal regno britannico. Al di là e attraverso l’ambiente culturale rappresentato dalla Gazzetta Britannica si può scorgere come gli inglesi tendessero a indottrinare la popolazione. Misurare il peso reale di tale propaganda resta un obiettivo primario per meglio interpretare la reazione popolare al tentativo di sbarco del 1810. Si potrebbe concludere che gl’inglesi furono in quel preciso momento un ostacolo alla Rivoluzione, ma in Sicilia edificarono le basi di un prerisorgimento, paradossalmente preparando l’ambiente a quelle stesse idee che combattevano e che pochi decenni dopo avrebbero dato il via a quei fatti che si sarebbero conclusi con l’epopea garibaldina.
Già quando, per esempio, la Gazzetta Britannica affrontava il problema della guerra franco-inglese in Spagna, non usava più l’argomentazione del legittimismo e della fedeltà al sovrano, ma l’argomentazione del "patriottismo" e della lotta eroica per la resistenza antifrancese. Allo stesso modo, per preparare la popolazione a resistere a un possibile sbarco di Murat, si utilizzò il ricordo dei Vespri siciliani con il massacro dei "francesi" di allora (21). Come è ben evidente, si tratta di tematiche, quella della guerra spagnola e quella dei Vespri Siciliani, che saranno sempre presenti nella retorica romantica risorgimentale. E non è ormai più un mistero quale peso avranno l’Inghilterra e l’opinione pubblica inglese appena qualche decennio dopo, in quello che è stato chiamato Risorgimento italiano (22). Non è neppure da trascurare l’influsso inglese nella costituzione siciliana del 1812 e l’abolizione della feudalità in Sicilia, con tutte le loro conseguenze sul panorama legislativo e sociale isolano. Lo scontro, quindi, con la propaganda franco-napoletana in realtà si riduceva al tentativo di indottrinare la popolazione, inoculandole le idee favorite dagli inglesi, indottrinamento che, tuttavia, nel suo strato superficiale mirava a dimostrare come lo stile di vita e il benessere dato alle popolazioni dai britannici fossero migliori di quelli proposti dai rivoluzionari francesi e dai reazionari Borboni. Un tentativo teso a modificare le tendenze, cioè le mentalità, i modi di essere, i costumi, senza cambiare subito in modo diretto le idee. Si trattava di una Rivoluzione meno profonda, ma che sarà il necessario presupposto per la diffusione delle future idee rivoluzionarie. In ogni caso gli stili di vita e il benessere furono per la popolazione l’aspetto più evidente della presenza inglese, tanto che alla fine di tutto, quando i soldati e la flotta del Re d’Inghilterra saranno tornati in patria, i monelli messinesi potranno cantare con un certo rimpianto:
«Finiu lu biffi biddi (23)
Ngrisi non ci n’è cchiù…» (24).

5. Le celebrazioni
Bisogna certamente rendere merito all’associazione Amici del Museo di Messina di aver riportato l’attenzione su questi fatti con una serie di conferenze e iniziative sul tentato sbarco murattiano e sul fallimento di quella impresa. Valido è stato anche il lavoro svolto dalla stessa associazione per la ricerca di reliquie ormai scomparse o dimenticate, come la bandiera di guerra sottratta al reggimento côrso, un tamburo sottratto ai francesi e il monumento — rimosso dopo i fatti risorgimentali e oggi non ancora ritrovato — eretto nel villaggio di Mili per volontà del sovrano per ringraziare il popolo insorto.
La lunga serie di eventi che dal settembre del 2010 fino al settembre del 2011 (25) sono stati dedicati all’argomento hanno certamente arricchito di nuovi dettagli il quadro d’insieme, nonostante l’intento dichiaratamente celebrativo. Inoltre le rievocazioni hanno permesso il recupero di una memoria collettiva che era andata lentamente perdendosi dall’Unità d’Italia fino a oggi.
6. Prospettive di studio
Lo storico Marco Tangheroni (1946-2004) nella prefazione a uno studio di Oscar Sanguinetti sull’insorgenza in Lombardia indicava due vie di ricerca che possono validamente ancora essere seguite (26).
In primo luogo raccomandava di dare importanza agli aspetti quantitativi della storia: «[…] contare i morti, le vittime, anche inermi, donne e bambini compresi» (27). E per i fatti in questione uno studio che vada oltre le fonti militari, finora le uniche a esser state considerate, sarà certamente ben accolto. In secondo luogo lo storico pisano raccomandava: «[…] nella coscienza che le esplosioni storiche avvengono solo se preparate: ricercare le attività del clero non convertito alle idee rivoluzionarie, nelle predicazioni, nelle missioni, nelle strutture organizzative della religiosità popolare — come le confraternite, contro le quali non casualmente si erano accanite le avanguardie gianseniste — le basi della profonda cattolicità che ebbe modo di manifestarsi nelle insorgenze italiane; quella cattolicità senza la quale non è possibile comprendere storicamente, cioè spiegare, quegli avvenimenti" (28). Un accostamento, cioè, che muove da una prospettiva diversa, che vada più a fondo e aiuti a comprendere anche cause più profonde e meno indagate. E, in relazione ai fatti appena raccontati, siamo di fronte a un ambito ancora quasi totalmente inesplorato. I margini per futuri approfondimenti si presentano quindi ampi e percorribili.
Note:
(*) Messinese, dottore magistrale in Scienze Storiche, Società culture e istituzioni d'Europa presso l'Università di Messina. Autore di articoli divulgativi a carattere storico.
(1) Per quanto riguarda lo studio e l’interpretazione delle insorgenze cfr. Oscar Sanguinetti, Insorgenza: vecchie e nuove prospettive, alla pagina <http://www.identitanazionale.it/inso_1014.php>, consultata il 9-5-2013; cfr. anche Sandro Petrucci, Insorgenze, linee interpretative, in Francesco Pappalardo e O. Sanguinetti (a cura di), 1861-2011. A centocinquant’anni dall’Unità d'Italia. Quale identità?, Cantagalli, Siena 2011, pp. 37-69.
(2) Cfr. S. Petrucci, op. cit., p. 51.
(3) Cfr. ibid., p. 49.
(4) Cfr. ibid., p. 53.
(5) Cfr. Virgilio Ilàri; Pietro Crociani; e Giancarlo Boeri, Le Due Sicilie nelle guerre napoleoniche (1800-1815), 2 voll., Stato Maggiore dell’Esercito-Ufficio Storico, Roma 2008, vol. II, pp. 549-551.
(6) Cfr. ibid., p. 606.
(7) Cfr. ibid., p. 607.
(8) Cfr. ibid., p. 615.
(9) Cfr. ibid., p. 616.
(10) Cfr. ibid., p. 618.
(11) Re di Napoli con il nome di Ferdinando IV e futuro Re delle Due Sicilie con il nome di Ferdinando I.
(12) Molte informazioni si possono trovare nel sito di modellismo militare alla pagina <http://modelvaldemone.blogspot.it/2010/10/cacciatore-rgt-forie-di-messina-reale.html>, consultata il 9-5-2013.
(13) Il riferimento è al volume V. Ilari; P. Crociani e G. Boeri, cit., p. 793.
(14) Cfr. ibidem.
(15) Il "tenente colonnello direttore" faceva parte del personale di carriera dei Volontari Siciliani, veniva scelto tra i tenenti colonnelli e, sotto gli ordini del colonnello, era responsabile della organizzazione, istruzione, manutenzione e disciplina del corpo, con obbligo di residenza nel capoluogo; cfr. ibid., p. 782.
(16) Si tratta di cinque battaglioni dell’Hannover, unità reduci dalla spedizione di Copenhagen del settembre del 1807 e destinate a Lisbona. A causa dell’occupazione francese del Portogallo furono mandate a Messina, dove sbarcarono nell’aprile del 1808; cfr. ibid., p. 854.
(17) Cfr. ibid., p. 792.
(18) In questo paragrafo non ho la pretesa di dare una visione completa del decennio inglese in Sicilia su cui esiste un'ampia serie di studi. Suggerisco, tuttavia una particolare chiave di lettura. La parola "Rivoluzione", con l’iniziale maiuscola, ove usata nel paragrafo, è da intendersi nel senso usato dalla scuola contro-rivoluzionaria cattolica di cui è massima espressione il filosofo brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) nel suo classico Rivoluzione e Contro-Rivoluzione(Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della "fabbrica" del testo e documenti interpretativi, Presentazione e cura di Giovanni Cantoni, Sugarco, Milano 2009).
(19) Luigi Sorrento (1884-1953), L’isola del sole, Trevisini, Milano 1936, p. 170.
(20) Cfr. Giorgio Spini (1916-2006), A proposito di "circolazione delle idee" nel Risorgimento. La Gazzetta Britannica di Messina, in Miscellanea in onore di Roberto Cessi, 3 voll, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1958, vol. III, p. 28.
(21) Cfr. ibid. p. 29.
(22) Sul ruolo dell'Inghilterra nel Risorgimento Italiano, cfr., fra l’altro, Pietro Pastorelli, 17 Marzo 1861. L'Inghilterra e l'Unità d'Italia, Rubettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2011; cfr. anche Eugenio Di Rienzo, Il Regno delle Due Sicilie e le potenze europee, Rubettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2012.
(23) Cioè carne e pane, dall’inglese beef e bread.
(24) L. Sorrento, op. cit., p. 349.
(25) Il 17 settembre 2011 si è tenuto l'ultimo degli eventi. Degno di nota in quella occasione è stato il contributo di Paolo Martinucci, corrispondente dell'Istituto Storico dell'Insorgenza e per l'Identità Nazionale per la Lombardia, che ha svolto una relazione dal titolo Insorgenza come categoria storico-politica.
(26) Prefazione di Marco Tangheroni in O. Sanguinetti, Le insorgenze contro-rivoluzionarie in Lombardia nel primo anno della dominazione napoleonica. 1796, Cristianità, Piacenza 1996, pp. 5-10.
(27) Ibid., p. 10.
(28) Ibidem.


da: www.identitanazionale.it

venerdì 9 ottobre 2015

La scomparsa del Capo della Real Casa Borbone delle Due Sicilie

La nozione di rivoluzione in uno storico contemporaneo

di Paolo Prodi 


Anche nella storiografia, non solo nella cronaca politica, il termine «rivoluzione» è stato spesso e viene ancora usato in modo equivoco. Non abbiamo ancora abbandonato una visione legata alle ideologie del secolo scorso che sostanzialmente identifica la rivoluzione con i sommovimenti violenti legati alla nazione e alle guerre di classe. L’uso del termine «rivoluzione» per l’età moderna e contemporanea è stato sempre legato — anche presso gli oppositori — alla visione marxista del passaggio dal modo di produzione feudale a quello industrial-capitalistico: sia a destra, sia a sinistra essa viene vista come costruzione di un nuovo ordine alternativo, social-comunista o social-nazionalista, ai regimi liberal-democratici nati da più antiche rivoluzioni borghesi del secolo XVIII quale quella americana o quella francese. Ogni rivoluzione […] ha una sua «ragione» che mira al ripristino di un assetto politico precedente che si pensa sia andato perduto o alla costruzione di un nuovo assetto della politica e della società. Essa non equivale a rivolta o ribellione ma ne è per certi versi l’opposto, anche se l’elemento di violenza può essere comune: rivolte, ribellioni (tumulti, moti, insurrezioni, colpi di Stato) ci sono stati sempre in tutte le civiltà e in tutti i tempi, ma nulla hanno a che fare con il concetto di «rivoluzione», il quale implica un progetto, anche se ideologico o utopico, di una nuova società.
Nell’intellettualità europea del secolo XX dapprima ha prevalso un uso equivoco del concetto di «rivoluzione» legato all’età dei totalitarismi: rivoluzione come lotta radicale alla società borghese, sia nelle avanguardie fasciste di destra, sia negli schieramenti social-comunisti, con il supporto delle ideologie idealista o marxista oppure in dialettica con esse. Solo negli Stati Uniti, soprattutto per merito dell’emigrazione intellettuale europea fuggita dagli orrori del nazismo, si è sviluppata un’idea più complessa di «rivoluzione», particolarmente nella riflessione sulla Rivoluzione americana vista non come un preludio alla successiva Rivoluzione francese ma in opposizione o in alternativa a questa. è del 1938 la pubblicazione di un’opera fondamentale di un intellettuale tedesco, ebreo convertito al cristianesimo, Eugen Rosenstock-Huessy, fuggito negli Stati Uniti già nel 1933 all’avvento al potere di Hitler: Out of Revolution. Autobiography of Western Man, opera mai tradotta e nemmeno conosciuta dalla storiografia ufficiale italiana del dopoguerra, nei decenni in cui essa era imbozzolata nelle controversie fra la cultura idealistica e quella marxista-gramsciana. Rosenstock — iso lato nel suo tempo ma di un’attualità sconcertante — ha per primo intravisto, più da lontano e più nel lungo periodo, la componente rivoluzionaria come caratteristica peculiare e continua dell’Occidente: un processo continuo, durato nove secoli, in cui l’uomo europeo si forma nella separazione e nella dialettica fra potere religioso e potere secolare. L’identità fra potere politico e potere sacrale si è rotta con la rivoluzione di Gregorio VII, con la lotta tra papato e impero nel secolo XI, e questa tensione è continuata sino alla prima guerra mondiale e alla Rivoluzione russa del 1917. Senza questa visione di lungo periodo è impossibile comprendere la più tarda e celebre opera Sulla rivoluzione di Hannah Arendt che riscuoterà un notevole successo — anche se in modo bivalente — nel tornante del 1968 e della rivoluzione culturale cinese, quando le antiche ideologie cominciarono a incrinarsi: dal problema della rivoluzione e dei totalitarismi come avvenimenti politici al problema del male nella storia come problema antropologico.
La storiografia posteriore al 1989 e alla crisi delle ideologie, più che riflettere sul problema concettuale generale della rivoluzione ha accertato con interessanti ricerche empiriche che non è esistito nella storia moderna un confine preciso fra ribellioni e rivoluzioni (dalle guerre dei contadini del primo Cinquecento alla rivolta napoletana di Masaniello del 1647 ecc.); è stata la manualistica tradizionale a classificare, nelle sue semplificazioni scolastiche in bianco e nero, come rivolte o rivoluzioni i movimenti capaci di tradurre le insofferenze sociali in violenze collettive contro i detentori del potere e in diritto di resistenza: rivolte in quanto basate sul richiamo a denunce profetiche, utopie, promesse di nuovi paradisi terrestri, a perdute o immaginarie tradizioni di giustizia e libertà; rivoluzioni come proposte di un nuovo progetto di società.
La storiografia più alla moda sembra però ancora limitarsi, pur accettando la differenza tra rivoluzioni, colpi di stato e ribellioni, a un’esposizione puramente fenomenologica mettendo in fila i rovesciamenti violenti dei sistemi politici avvenuti nel corso della storia ed elencando le diverse tipologie in cui essi possono essere classificati. […] Di fronte a queste visioni onnicomprensive in cui tutti i gatti sono bigi la storiografia italiana recente più avvertita e più attenta ai problemi di metodo ha quindi abbandonato il concetto stesso di «rivoluzione» per mettere al centro della discussione il problema della «transizione» come definizione di epoche assiali e di passaggio, con momenti di accelerazione e di rallentamento nello sviluppo della modernità.
Lo storicismo romantico ha già dimostrato che il pensiero cristiano, da Agostino in poi, aveva mutato sostanzialmente il significato di questo termine da descrizione di un moto ripetitivo degli astri, nella natura e nella società, a un moto lineare, innovativo, come cammino dell’umanità verso la salvezza e la redenzione, tramutato poi, nelle filosofie post-cristiane, nel mito del progresso. Nei grandi dizionari di latino classico e medievale non troviamo però la parola revolutio: soltanto termini come stasis e kìnesis per indicare il moto alternato di quiete e movimento (o rivolgimento) nella natura e nella città. Come è noto, fu Niccolò Copernico a introdurlo nel 1543 intitolando il suo trattato sul movimento dei pianeti intorno al sole De revolutionibus orbium coelestium e questo termine si è diffuso al di là delle scienze della natura nell’Inghilterra del secolo XVII per indicare un mutamento, un cambio di regime. E la nuova visione del mondo che si afferma con l’umanesimo che, riprendendo il pensiero politico classico, collega questo concetto di rivoluzione alla visione delle lotte per il potere (sono state richiamate anche da molti recenti autori le pagine di Aristotele e di Polibio) come moto circolare in base al quale le società come gli astri ritornano al punto di partenza attraverso il susseguirsi di rivoluzioni quando il sistema dominante si corrompe: dalla monarchia abbiamo il passaggio violento alla tirannide, da questa all’oligarchia e alla democrazia, in ordine diverso o inverso ma sempre in qualche modo con la restaurazione di ciò che era stato o si pensava fosse stato all’inizio. Con il passaggio dall’umanesimo al Seicento, con la rivoluzione scientifica, la parola revolutio acquista un significato ben più ampio rispetto al puro ritorno degli astri (o di qualsiasi altro ente) al punto di partenza al termine di un ciclo astronomico, per acquisire il significato diverso di mutamento di paradigma: mutamento che avviene nella storia politico-sociale così come nella storia della scienza quando cambiano i nostri parametri di misura della realtà dal punto di vista antropologico, sociale, politico, economico: quando mutano i paradigmi con cui leggiamo la realtà e ci proponiamo di cambiarla.


(da Il tramonto della rivoluzione, il Mulino, Bologna 2015, pp. 12-19)

lunedì 5 ottobre 2015

Biografia di Plinio Corrêa de Oliveira!

Il 3 ottobre ricorrono vent’anni dalla scomparsa del grande leader cattolico prof. Plinio Corrêa de Oliveira, giustamente chiamato dai suoi biografi “Il crociato del secolo XX”.
Leader delle Congregazioni Mariane, presidente dell’Azione Cattolica, deputato per la Lega Elettorale Cattolica, cattedratico, scrittore, fondatore di movimenti civici, grande maestro della vita spirituale, il suo pensiero è stato qualificato da un documento del Vaticano “eco fedelissima del Supremo Magistero della Chiesa”.
Per commemorare l’anniversario, l’Associazione Tradizione Famiglia Proprietà,da lui ispirata, ha preparato una Breve biografia illustrata.

Clicca qui per leggere la biografia