sabato 29 aprile 2017

Un “Codice Cavallersco” per gli uomini di oggi

di Domenico Bonvegna

Il libro di Roberto Marchesini,Codice cavalleresco per l'uomo del terzo millennio”, SugarcoEdizioni (2017)  Si presenta come una mappa per l'uomo contemporaneo per riscoprire se stesso e la grandezza del suo essere maschile. Convinto che la natura dell'essere umano resta immutata e immutabile attraverso i tempi. Per lo psicoterapeuta non è anacronistico ricorrere alla figura del cavaliere con le sue virtù per l'uomo di oggi che si manifesta smarrito e sballottato“tra modelli effeminati o machisti, non certo virili”
L'autore ci regala una sintesi di cosa è stato veramente il cavaliere nella Storia. Essere nobili non significa“vivere di rendita” sulle spalle degli altri, senza lavorare.“[...]la nobiltà di spada, oltre a essersi guadagnata titolo e terre con il rischio della vita, in combattimento, usufruiva di quel mantenimento perché le toccava sacrificarsi in caso di pericolo”. Praticamente, “i contadini mantenevano si i nobili, ma per avere in cambio protezione e la salvezza della vita; i nobili erano sì mantenuti, ma perché era loro compito rischiare la vita per difendere chi si era a loro affidato”. Pertanto“la nobiltà - continua Marchesini - era un gravoso dovere, non un piacevole beneficio”. Cosa diversa invece era la nobiltà di toga. Questa, “dimostrando la sua volgarità, aspirava soltanto agli aspetti piacevoli della nobiltà, ignorando completamente la pericolosa contropartita”.
Del resto per Marchesini appartenere all'élite della società implica dei doveri nei confronti della società stessa. L'animo volgare non prende nemmeno in considerazione che la vita sia compitodoveresacrificio. Anzi guarda con sospetto ognuna di queste tre parole. Eppure sono state queste parole “il fondamento educativo che ha costruito l'Occidente così come lo conosciamo”.
Tuttavia una vita senza un fine, senza uno scopo, senza un significato è una vita grigia, vuota, impossibile da vivere. Secondo lo psichiatra Viktor Frankl, il principio che guida “l'esistenza delle persone non è il principio del piacere (come sosteneva Freud), e nemmeno la volontà di potenza (come affermava Adler), bensì la volontà di significato, la ricerca di uno scopo, di un senso nella propria vita”. Così sempre facendo riferimento a Frankl, l'uomo volgare occidentale di oggi,“immerso in un 'vuoto esistenziale', cerca di soffocare la propria angoscia nella ricerca del piacere”. La stella polare dell'uomo volgare, un po' selvaggio, sembra essere un'esistenza immersa nella nebbia del piacere. L'unico scopo dell'uomo contemporaneo è di cercare ogni tipo di piacere. Divertirsi, che significa allontanarsi dallo scopo della vita, dal dovere, dal sacrificio. Allontanarsi dalla propria vocazione di uomo, dal proprio destino.
L'uomo d'oggi fa di tutto per raggiungere la liberazione sessuale, ma alla fine arriva alla schiavitù sessuale. Del resto“chi vive in modo edonistico  -scrive Marchesini – non vive realmente come vuole (anche se magari non se ne rende conto); si accontenta di una vita anestetizzata”. Allora dobbiamo accontentarci di una dose quotidiana di anestetico, oppure possiamo avere di più? Per Marchesini possiamo tendere a una vita migliore, ci propone una vita dove possiamo“realizzarci pienamente, mettere a frutto i nostri talenti senza seppellirli,essere orgogliosi di noi, invece di passare la vita a vergognarci”. Questa vita è possibile.“Ma abbiamo bisogno - come ha scritto Goethe – di un ordine, di una legge”. Ecco il “Codice cavalleresco”. Certo, il bambino viziato, il selvaggio con smartphone, l'edonista si metterà a ridire della proposta. Non importa, noi vogliamo vivere secondo un ordine e una legge, innanzitutto vogliamo vivere una vita con coraggio, con onore, con sincerità, con lealtà, con la cortesia, con franchezza, da veri sportivi. Sono questi i valori che contano, anche se ormai vengono pronunciati soltanto“nelle vecchie pellicole in bianco e nero della commedia all'italiana”. Ma sono gli unici, necessari se vogliamo vivere una vita di vera felicità.
Le riflessioni proposte da Marchesini sui valori fondamentali che delineano il cavaliere sono tutte interessanti. Meriterebbero uno spazio adeguato in questo mio intervento. Propongo qualche riflessione sul “coraggio”. Marchesini parte da uno dei libri fondamentali della Chiesa, “L'Imitazione di Cristo” , infatti Gesù Cristo  è il “paradigma e l'esemplare[...] degli uomini-maschi”, la perfetta realizzazione di ogni uomo. Cristo si è sacrificato per gli altri, “non è solo una verità di fede, ma anche una verità di ragione: la felicità dell'uomo consiste nel donare se stesso[...]”. E la conclusione alla quale sono giunti anche filosofi non cristiani come Aristotele, Seneca, Kierkegard.
In pratica l'uomo paradossalmente trova la propria felicità, cercando la felicità altrui e sacrificando se stesso. Si pensi alla numerosa schiera di santi nella Chiesa, penso a madre Teresa di Calcutta. Marchesini cerca di convincerci che gli uomini nonostante tutto portano il peso di tutte le guerre, sono loro a combattere. “Io combatto perchè voi non dobbiate combattere”, esclama il protagonista del film Ironclad.
La Chiesa ha sempre tenuto in considerazione, la virtù della fortezza, cioè della forza soprattutto la forza d'animo. Il coraggio per Marchesini non consiste ricercare la ferita o la morte per se stessa, significa essere disponibili nella lotta contro il male, sempre però con prudenza, altra virtù cardinale. Attenzione, essere prudenti però non significa non esporsi, non prendere posizione, mantenersi nella mediocrità senza assumere posizioni nette. “Il prudente – per Marchesini - non è il mediocre, ma il saggio, che quando capisce dove sta il bene ci si butta senza dubbi né ripensamenti; il coraggioso non è il timoroso ma, al contrario, risoluto: nel bene”.
Marchesini discetta sul significato dell'essere maschi, uomini, facendo riferimento agli antichi latini, “uomo diventa ciò che sei”, cioè forte, coraggioso, virtuoso. Del resto è quello che desiderano gli uomini “in crisi”, stanchi di una vita insoddisfacente, demotivati, senza uno scopo. Mentre la donna non ha il problema di sentirsi debole, per loro è la bellezza quello che conta.
Il nemico del coraggio è il timore,“esso toglie all'uomo la speranza di vincere, quindi l'uomo timoroso è disperato. L'uomo timoroso rinuncia a combattere ancora prima di aver incontrato il male, e fugge”. La nostra società, che è diventata sempre più “maternaiperprotettivaci spinge, ci induce ad essere timorosi, non coraggiosi”. Non per nulla, la nostra società ormai è “senza padre”. L'iperprotezione della mamma è castrante. “La maternità è oggigiorno addirittura elevata a sistema di governo. Lo Stato è una madre avvolgente, protettiva, rassicurante che, per il nostro bene, ci proibisce di fumare, di bere, di correre in auto, di difenderci, di pensare[...]”. E' il super-Stato dell'Unione Europea a dircelo. Praticamente “il politicamente corretto non è altro che il femminile assurto a norma sociale”. Infatti bisogna evitare i conflitti a ogni costo; non offendere, non urtare la sensibilità altrui. Certo a volte è bene farlo, però bisogna anche dire le cose, la realtà si impone, talvolta anche duramente. E allora affinchè il politicamente corretto non diventi dispotismo o dittatura, il femminile va bilanciato col maschile.
Oggi elogiare la forza è come bestemmiare. Per Marchesini, “la nostra società incoraggia la debolezza [...]la morbidezza”. Ci dicono che la forza è violenza, “scordando tuttavia che la forza è l'unico rimedio alla violenza, che senza i forti saremmo in preda ai violenti”.
Comunque sia la nostra civiltà è stata fattada uomini coraggiosi, non da vili”. Oggi invece nella nostra società siamo circondati da gente che temono di affrontare anche un minimo esame universitario, di prendere posizione pubblicamente, o di esporsi. “Che garanzie ci sono per riuscire?”, è la domanda frequente. Siamo circondati da gente che sembra di fare grandi gesti, ma soltanto quando hanno la garanzia che non ci sono conseguenze.
Rispondere delle proprie azioni  e pagarne le conseguenze, significa essere responsabili.“Il tipo umano che la nostra società sta allevando non vuole pagare le conseguenze delle sue azioni, vuole essere irresponsabile. I bambini sono irresponsabili, ed anche i folli”. Dunque “siamo una società di bambini o di folli?”.
Mi ricordo di un grave atto di cronaca di alcuni anni fa in Sicilia, tre giovani avevano violentato e uccisa una ragazza, uno di questi dopo essere stato interrogato dagli inquirenti, esclamava con distacco, ”adesso posso ritornare a casa?”.
Siamo stati educati fin dalla nascita, all'irresponsabilità, alla viltà, a rinunciare a lottare per il bene se le conseguenze non ci piacciono. Sostanzialmente siamo schiavi del timore, che non è una cosa cattiva. Il timore secondo Marchesini è “come un semaforo giallo: ci dice di stare attenti. Non è un semaforo rosso, che ci dice di non andare”. Se andare o meno lo decide la ragione, non il timore.
Concludendo occorre sottolineare che l'uomo coraggioso non è quello che non ha paura, è quello che nonostante la paura, fa quello che deve fare, cioè le cose giuste. E' l'uomo che utilizza le passioni, ma non si fa guidare da esse, anzi li domina. Li guida e li indirizza verso il bene. Ecco che a fianco del coraggio e della prudenza, troviamo la temperanza. Esattamente il contrario di quanto insegna la società odierna: “Soddisfa le tue passioni”“Segui le tue passioni”, sono questi gli slogan della pubblicità di oggi. L'uomo contemporaneo è guidato ed è in balia delle passioni. L'uomo coraggioso no, è un uomo libero. Legata al coraggio c'è poi la giustizia. “Non si può essere giusti se non si è coraggiosi”

giovedì 27 aprile 2017

San Giorgio e i Martiri militari: modelli per i soldati di Cristo Re

di Giuliano Zoroddu

Ogni ventitré di Aprile la santa Chiesa, nella varietà dei suoi sacri riti, celebra la memoria di san Giorgio, cara al popolo cristiano. La sua biografia è avvolta nella leggenda1. Possiamo presupporre che il nostro Santo nacque in Asia minore verso la fine del secolo III. Militava sotto le insigne romane quando l’imperatore Diocleziano emanò gli editti persecutori contro la Chiesa: fu allora, verso l’anno 303, che il soldato fece pubblica professione delle Fede Cristiana e fu martirizzato assieme ad alcuni suoi compagni. Sul suo sepolcro, venerato a Lydda (odierna Lod in Israele), fiorì subito un importante culto che rapidamente pervase tutto l’Oriente. Nel secolo V la devozione al Santo “Μεγαλομάρτυρ” (Megalomàrtyr, grande Martire) e “Τροπαιοφόρος” (Tropaiophòros, colui che porta il trofeo della vittoria contro il nemico) fu trasmessa all’Occidente1. Sia i Greci sia i Latini ben presto affidarono a san Giorgio la protezione delle milizie cristiane e videro in lui il modello cui il soldato cristiano avrebbe dovuto ispirarsi nella sua lotta per la difesa della Fede, della Chiesa e della patria. In questo nostro tempo di “morta fede ed empietà trionfante”, per citare il beato Bartolo Longo, in cui il cattolico è sballottato dalle onde degli errori che sconquassano la Chiesa Romana avvilita da una cinquantennale “cattività modernistica”, la figura di san Giorgio e il suo culto “militaresco” ci sono utili per abbattere alcuni miti come un presunto antimilitarismo di foggia pacifista e quasi rivoluzionario che avrebbe caratterizzato la prima comunità cristiana, per fornire un sunto della dottrina cattolica sulla milizia, sul problema della guerra e sull’ordine sociale in generale e per delineare l’azione del Cristo nel mondo attuale.
Anzitutto va detto come nell’Antico Testamento Dio – lo stesso Dio del Nuovo Testamento3 – legittima il servizio militare e comanda Egli stesso che si facciano delle guerre (anche terribilmente sanguinose!) perché Israele fosse libero dai suoi nemici e perseverasse nel culto dell’unico vero Dio. Nel Salterio e nei Profeti, il Messia viene spesso rappresentato come un valoroso condottiero che trionfa dei nemici: ne sono esempi il Salmo CIX e il capitolo LXIII di Isaia (vv. 1-6). Nei Vangeli poi, se escludiamo gli sgherri Ebrei e i milites di Pilato che torturano Cristo, tutti i soldati menzionati sono veri e propri modelli di fede. Gesù Cristo loda la fede del centurione di Cafarnao come la più grande in Israele (Cfr. Matth. VIII, 5-13; Luc. VI, 2-10); sotto la croce fra le bestemmie dei deicidi e lo sconvolgimento della natura è il centurione che assieme ai suoi uomini riconosce chi è realmente quell’uomo appena morto: «Vere homo hic Filius Dei erat!» (Matth. XXVII, 54). Negli Atti degli Apostoli la vocazione dei Gentili alla salvezza viene inaugurata con il battesimo di Cornelio centurione della coorte Italica (Cfr. Act. X) il quale viene definito da san Luca «uomo pio e timorato di Dio» (Act. X, 1). «Persona di senno, che […] desiderava ascoltare la parola di Dio» (Act. XIII, 7) vien chiamato il Proconsole Sergio Paolo che si fece Cristiano dopo che san Paolo accecò il Mago Elimas (Cfr. Act. XIII, 4-12). Al di là delle tradizioni4 sulla vita di costoro, non possiamo di certo affermare che l’incontro di questi uomini d’arme con Cristo ne abbia determinato l’abbandono dell’esercito.
L’Apostolo, memore del detto del santo Giobbe “Militia est vita hominis super terram”5, chiama il cristiano “miles Christi Iesu” (2Tim. II, 3) in eterna lotta col mondo e i demoni suoi reggitori (Cfr. Eph. VI, 10-17): segno che il “mestiere” del soldato non era affatto tenuto per disdicevole o addirittura incompatibile con il Battesimo. Lo stesso atteggiamento prudente fu mantenuto dalla Chiesa nel giudicare questa delicata situazione. Furono al contrario le varie sette eretiche che, contrariamente all’insegnamento di Cristo e degli Apostoli6 vedevano nell’Impero Romano una creazione di Satana, un istituzione aliene al Cristianesimo e da osteggiare in tutti i modi. In Occidente tali idee vennero espresse per esempio da due autori del III secolo: il controverso Ippolito Romano (Commentarium in Danielem) e Tertulliano (De corona, De spectaculis, De idolatria). Proprio nel De corona del 211 l’autore africano, che da cattolico si vantava di come i cristiani avessero grandemente riempito le schiere dell’esercito, quando divenne eretico montanista, prendendo spunto dal degradazione di un soldato cristiano che in occasione di una festa in memoria dell’imperatore Severo Settimio si era rifiutato di cingersi della rituale corona, condanna il servizio militare come indegno per un cristiano. L’idea dell’inconciliabilità fra la professione di fede cristiana e la milizia, seppur purificata dalla virulenza anti-imperale la troviamo anche in autori come Origene e Lattanzio e in alcuni Acta autorevoli e storicamente accertati, come gli Atti di san Marcello che ci presentano un caso di obbiezione di coscienza.
Come fa notare l’Abate Giuseppe Ricciotti «negli eserciti romani i cristiani erano numerosi perché specialmente i giovani provinciali tentavano migliorare le loro condizioni di vita arruolandosi. […] Ma a rigore per i cristiani c’era una grave questione di coscienza. Poteva un seguace del Cristo uccidere il suo prossimo? Poteva giurare fedeltà a imperatori ostili a Cristo, e proferire tale giuramento impegnando espressioni idolatriche ed empie? […] Da alcuni pochi accenni che abbiamo risulterebbe che la grande maggioranza cristiana giudicava lecito il servizio militare, mentre una certa minoranza o era dubbiosa in proposito o la condannava recisamente. […] Inoltre, questo atteggiamento avverso al servizio militare dei cristiani poteva ricollegarsi con certe previsioni apocalittiche che contemplavano il crollo imminente dell’Impero pagano»7. E proprio facendo leva sulle idee potenzialmente pericolose di questa minoranza il subdolo Galerio portò il sommo Augusto Diocleziano a dare inizio all’ultima grande persecuzione dove perì il nostro san Giorgio, assieme a una grande schiera di uomini che anteposero la militia Christi alla militia Caesaris. Il vero milite cattolico è infatti il «defensor Ecclesiarum, viduarum, orphanorum, omniumque Deo servientium, contra sævitiam paganorum, atque hæreticorum»8. Si può essere soldato dell’Imperatore, anche se egli è pagano è Dio la causa della sua autorità: si deve obbedire ai suoi ordini; si debbono combattere le guerre che egli comanda di combattere a difesa della patria; non pecca se uccide il nemico, né se sopprime il criminale9; ma se gli vengono ordinate cose contrarie al diritto umano e al diritto divino (come sacrificare agl’idoli), conculca la Chiesa od opprime il popolo, egli ha il diritto all’obiezione di coscienza e il dovere di non ubbidire anche se è in gioco la sua stessa vita. Il soldato cristiano – sia esso re, capo o gregario – deve combattere inoltre le guerre di Dio contro i nemici del nome Cristiano e della Chiesa di Cristo. «Lʼuna e lʼaltra spada sono in potestà della Chiesa, cioè la spada spirituale e quella materiale. Ma questa deve essere usata in favore della Chiesa, questa dalla Chiesa.
Quella è nella mano del Sacerdote, questa dei Re e dei soldati, ma secondo il cenno e il volere del Sacerdote»10 insegna infallibilmente Bonifacio VIII. Infatti come già diceva Agostino «i re come tali, servono Dio quando, per ubbidirgli, fanno ciò che solo i re possono fare. Dopo ch’è cominciata ad avverarsi la predizione della Sacra Scrittura: “E lo adoreranno tutti i re della terra, tutte le genti lo serviranno” (Ps. LXXI, 11), bisognerebbe aver perduto il cervello per suggerire ai sovrani: “Non preoccupatevi di sapere da chi nel vostro Stato viene difesa o combattuta la Chiesa del vostro Signore; non v’importi di sapere chi vuol essere adoratore di Dio o idolatra”»11. Così si fecero santi nella milizia Ferdinando III, Luigi IX e tanti altri uomini sconosciuti che, come soldati, partirono alla santa Crociata contro gli infedeli o gli eretici con la Fede nel cuore e benedetti da Cristo e dal suo Vicario, in difesa della Christianitas, l’unico vero Ordine voluto dalla Provvidenza. Rifuggiamo pertanto certa retorica sulle cosiddette “forze dell’ordine” che soprattutto in tempi cupi come questi (fatta salva la buona fede dei singoli) paiono quasi essere più al servizio di un “non-ordine”, come quello degli Stati attuali terribilmente degradati nella loro apostasia.
Chi leggerà magari non sarà, allo stesso modo dello scrivente, un soldato con la divisa e l’elmetto, ma magari è un cresimato e quindi è un soldato d’ordine superiore un “miles Christi” che ha il dovere di render testimonianza con tutto il suo essere alla Verità che è Cristo e che ci si comunica nella Chiesa Romana. Nel lontano 1952 il santo Papa Pio XII desiderava il sorgere di falangi di apostoli che «contro gli industriali del peccato» facessero dovunque regnare il Cristo12: questo è esattamente il nostro compito, il “bonum certamen” di cui parla l’Apostolo. Coi Sacramenti e la dottrina ortodossa dobbiamo armarci anzitutto contro i demoni che ci tentano a morte e quindi, come i coraggiosi martiri di ogni tempo, combattere per Cristo Re diffondendo la sua salutare dottrina, scardinando quei falsi miti con cui si infanga la storia della Madre Chiesa e prima di tutto. San Giorgio e gli altri santi militari ci assistano nei nostri quotidiani combattimenti “ut qui sub Christi Regis vexíllis militáre gloriamur, cum ipso, in cœlesti sede, iugiter regnare possimus”13.

NOTE

Per quanto riguarda l’ambito liturgico latino la festa di San Giorgio si celebrò fino alla riforme giovannee del 1960-1962 col grado di semiduplex. Declassata da queste al grado di semplice commemorazione, subordinata all’Ufficio e alla Messa del giorno feriale, essa appare nel Messale di Paolo VI solamente come memoria facoltativa.
Già il “Decretum Gelasianum de libris recipiendis et non recipiendis” – un documento prodotto fra il V e il VI secolo in Italia o nella Gallia meridionale, falsamente attribuito a Papa san Gelasio I (492-496) – squalificava come apocrifa la “Passio sancti Georgii”. Su questa base il Breviario Romano nell’Ufficio di Mattutino non ha per san Giorgio le consuete “lectiones” biografiche, sostituite da alcuni passi di san Cipriano sul combattimento dei Martiri.
La distinzione fra un Dio del Vecchio Testamento, cattivo e sanguinario, e un Dio del Nuovo Testamento (Gesù), buono e amorevole, è un’idea degli Gnostici sostenuta principalmente da Marcione (85-160) e dai suoi seguaci. Confutata dai Padri della Chiesa fin dai primi secoli, ritorna continuamente in ogni eresia a carattere manicheo. La Chiesa ha condannato questa teoria e a stabilito dommaticamente il contrario: «Essa [la Chiesa] confessa che un solo, identico Dio è autore dell’antico e dei nuovo Testamento, cioè della Legge e dei Profeti, e del Vangelo, perché i Santi dell’uno e dell’altro Testamento hanno parlato sotto l’ispirazione del medesimo Spirito Santo» (Concilio di Firenze, Sessione XI, Decreto sui Giacobiti, 4 febbraio 1442).
Il Martirologio Romano riceve e accetta la tradizione secondo cui sia Cornelio sia Sergio Paolo, dopo la loro conversione furono consacrati il primo da san Pietro Vescovo di Cesarea di Palestina e il secondo da san Paolo Vescovo di Narbona in Francia. Cfr. “Martirologio Romano pubblicato per ordine del Sommo Pontefice Gregorio XIII, riveduto per autorità di Urbano VIII e Clemente X, aumentato nel MDCCXLIX da Benedetto XIV”, Quarta Edizione Italiana, Libreria Editrice Vaticana, MDCCCCLV, Concordat cum originali. Die 8 Septempris 1954. † Fr. Petrus Canisius Van Lierde, Ep. Porphyr,. Vic. Gen. Civ. Vat., pp. 30 e 70.
Iob VII, 1 (Vulg.): «La vita dell’uomo sulla terra è una milizia e i suoi giorni son come i giorni del mercenario».
Gesù dice a Pilato che la sua autorità viene da Dio: «Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall’alto» (Ioann. XIX, 11). Lo stesso pensiero ribadisce san Paolo: «Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna. I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male. Vuoi non aver da temere l’autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode, poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male. Perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza. Per questo dunque dovete pagare i tributi, perché quelli che sono dediti a questo compito sono funzionari di Dio. Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse le tasse; a chi il timore il timore; a chi il rispetto il rispetto» (Rom. XIII, 1-7). Lo stesso Apostolo ordina a Timoteo «prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere» (2Tim. I, 1-2). Infine san Pietro: «State sottomessi ad ogni istituzione umana per amore del Signore: sia al re come sovrano, sia ai governatori come ai suoi inviati per punire i malfattori e premiare i buoni. Perché questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all’ignoranza degli stolti. Comportatevi come uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servitori di Dio. Onorate tutti, amate i vostri fratelli, temete Dio, onorate il re» (1Petr. II, 13-17).
Giuseppe Ricciotti, L’Era dei Martiri, Arnaldo Mondadori Editore, 1962, p. 40.
Pontificale Romanum jussu editum a Benedicto XIV et Leone XIII recognitum et castigatum, De benedictione novi militis. Sempre nel Pontificale troviamo il rito della benedizione delle armi, della spada e dei vessilli di guerra.
Sarà utile leggere: San Paolo, Lettera ai Romani, XIII, 4; Sant’Agostino, De civitate Dei contra paganos, I, 21; San Tommaso, Somma Teologica, IIa-IIae, q. 29, artt. 37-42; Catechismo Tridentino o Romano, n. 328; Catechismo Maggiore di san Pio X, n. 413; Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2267).
Unam Sanctam, 18 novembre 1302.
Ep. CLXXXV, 20.
Discorso di Pasqua, 13 aprile 1952
Orazione dopo la comunione, Messa di Cristo Re.

da: www. radiospada.org

sabato 8 aprile 2017

Una Grande Famiglia: i Notarbartolo

di Tommaso Romano

Relazione svolta da Tommaso Romano in occasione della Presentazione del volume di Mariolino Papalia dal titolo “La Casa Notarbartolo. Storia e Tavole genealogiche” nella storica Sala delle Lapidi del Comune di Palermo il 1° Aprile 2017, con l’intervento e la Presidenza del Sindaco On. Prof. Leoluca Orlando, dell’Autore del volume e del Principe F. Notarbartolo


Il volume che ho il piacere e il privilegio di presentare è dedicato ad una delle “più antiche e nobili”, come la definì il grande storiografo e araldista, Mango di Casalgerardo, famiglie italiane e illustri per la storia di Sicilia: i Notarbartolo.
Devo ringraziare il Principe Don Francesco Notarbartolo di Sciara e Castelreale, Marchese di San Giovanni La Mendola, Capo del Casato, Amico stimatissimo, Gentiluomo generoso, insieme al Cav. Mariolino Papalia, Cavaliere dell’Ordine al Merito Civile di Savoia, Guardia d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon, autore del volume che si illustra, dal titolo La Casa Notarbartolo. Storia e Tavole Genealogiche (Antipodes, Palermo, 2016), per la preziosa opportunità in un luogo così carico di storia memorie come la Sala delle Lapidi del Palazzo Pretorio di Palermo. Papalia, Presidente dell’Associazione Chiese Storiche è autore di volumi interessanti: Baioli, Pretori, Podestà e Sindaci di Palermo dal 1300 al 2007; Iscrizioni sepolcrali della Chiesa di Palermo; Bibliografia Dannunziana; Compagnie Nobili della Felicissima Città di Palermo, ed anche narratore.
Dire e riassumere dei Notarbartolo e delle loro vicende, delle biografie dei suoi più significativi esponenti, è impresa che è stata portata a buon termine dal Papalia con rigore scientifica, amore e verifica delle fonti, ricchezza di particolari, precise genealogie che si evidenziano nelle Tavole specifiche. E’ un merito particolare e non solo riservato alla privata, seppur assai importante, vicenda di una famiglia. E’, in effetti, l’affresco organico della Tradizione e della Storia che, se non si intersecano e non si sanno coniugare, rischiano l’indefinita fantasia o al contrario l’arida proposizione delle pur fondamentali carte archivistiche.
Tutte le grandi Famiglie hanno, infatti, grazie al Mito e alla Tradizione orale, una Origine che sottovalutare è riduttivo, perché le fonti sono sempre da considerare nella loro pluralità.
Senza simboli, mitografie, archetipi non avremmo l’Arte, i Poemi, le Epopee, le Gesta della distinzione regale, nobiliare, cavalleresca, religiosa che si coniugavano con il Popolo autentico, che non era ancora diventano massa indifferenziata.
Anche per i Notarbartolo si sono tramandate veraci e radicali tradizioni, che li farebbe discendere a partire da Nicanore, dal Re dei Franchi nel 446, e poi con un Wangen, Signore di Andermach, il IX secolo a Gelach, nei pressi di Coblenza. La famiglia si spostò in seguito in Francia, con il cognome Angenio, con il titolo di Conti di Alsazia.
Le prove storico – archivistico – documentarie risalgono a circa 1150 anni fa, riguardo l’arrivo in Italia, con l’Imperatore Ottone (962) del Capostipite, riconosciuto dai vari rami – Bartolo, Notarius, Cancelliere e Porta Sigilli, con il compito di registrare gli Atti imperiali.
La famiglia, intanto, espandendosi prese varie dimore in Toscana, Napoli, Lecce, Umbria, Sicilia. Un Luchino è governatore di Pisa, figlio appunto di Notarius Bartolo, da qui l’uso del cognome Notarbartolo. A lui si devono i quattro Rami della Famiglia.
A Napoli i Notarbartolo si imparentarono con le più cospicue famiglie, a Lecce, con il titolo di Conti, troviamo un Giovanni d’Angenio (di cui va ricordata, di questa linea, una Regina d’Ungheria) e, finalmente, in Sicilia, a Catania esattamente, dove la famiglia di parte ghibellina, nel 1296 giunse con Pietro, Segretario del Re Federico III, che ottenne il Feudum e la Castellania di Polizzi e poi quella di Nicosia. Filippo Notarbartolo con privilegio dato a Madrid il 13 novembre 1671 ed esecutoriato a Palermo il 16 febbraio 1672, dal Re di Spagna Carlo II viene investito del titolo di Principe di Sciara, con facoltà di popolare il territorio, cosa che effettivamente fece, su un latifondo chiamato Broccato nel ‘500 appartenente a Lorenzo Barone di Gummaro, con il mero e misto imperio.
Il primo Principe di Sciara sposò Anna Sandoval (il cui cognome è ora pure patrimonio di Don Francesco) Paceco Filangeri di Diego 2° Principe di Castelreale e di Antona Filangeri e Papè. Filippo fu Deputato del Regno nel 1680 e, come si legge nel volume di Papalia, “si aggiudicò, dall’eredità di Giuseppe Notarbartolo, il feudo di Sichechi, di cui fu investito il 12 maggio 1682 (Registro Cancelleria, V indizione, fg. 64). Il figlio di Filippo, Gaspare Notarbartolo Sandoval s’investì, il 1° luglio 1705, del Principato e Terra di Sciara. Gaspare sposò Francesca Grimaldi di Genova (famiglia da cui gli attuali Principi di Monaco), in seconde nozze Giovanna Sarzana e Tagliavia. Da loro Francesco Paolo Notarbatolo e Pilo; Filippo Notarbartolo De Gregorio, Francesco Paolo Notarbartolo e Vanni, Giovanni Notarbartolo Ballesteros che sposò Giulia Pignatelli.
L’ottavo Principe di Sciara fu Filippo Notarbartolo e Pignatelli che nacque a Palermo il 31 gennaio 1851 e sposò l’11 giugno 1892, Francesca Tortorici e Stabile, il quale con D.M 6 maggio 1900, ebbe riconosciuti dal Regno d’Italia i titoli di Principe di Sciara e di Castelreale e di Marchese di San Giovanni. Dal matrimonio nacquero Giovanni (1889), Giulia (1896) sposata con Giuseppe De Spucches Duca di Caccamo, figlio di Antonio Principe di Galati e Francesco Paolo (1903).
Va ricordato che la Zisa fu, palermitana per 200 anni, proprietà dei Sandoval. Juan Sandoval e Paceco nel 1809 la eredita da Francesco di Paola Notarbartolo e Pilo, discendente del ramo collaterale dei Sadoval, che tennero il maniero fino al 1951. Nel 1955 il castello fu espropriato dall’Assessorato Pubblica Istruzione della Regione Siciliana. Crollata un’ala dello stesso, nel 1971, fu finalmente restaurato dell’architetto Giuseppe Caronia, nel 1991. La toponomastica cittadina ricorda “Villa Notarbartolo”, adiacente Piazza Zisa, mentre lapidi sepolcrali dei Sandoval e Notarbartolo, si possono visitare nella collegata Chiesa di santo Stefano Protomartire alla Zisa, già dell’Annunciazione.
Il Principato di Castelreale proviene quindi da Giovanni Sandoval e Platamone, che ebbe concesso per sé, suoi eredi e successori, il titolo di Principe, sul fondo rustico sito in Palermo nella terra appunto prima ricordata intorno alla Zisa, chiamata Castelreale, per popolarla entro 10 anni. Il Privilegio fu concesso dal grande Re Carlo III di Borbone, datato Madrid 13 giugno 1672, e fu esecutoriato il 4 febbraio 1673.
A Giovanni Sandoval, successe Diego e poi Antonio Sandoval Filangeri, Giovanni Diego Sandoval e Mira, Giovanni Antonio Sandoval Conte di Naso (1879 – 1809), il quale non avendo figli, diede diritto a Francesco Notarbartolo e Pilo, Principe di Sciara, di essere investito del titolo di Principe di Castelreale (26 aprile 1809), tale diritto pervenne al Notarbartolo da Anna Sandoval, sua bisava”.
I Notarbartolo furono pure Pari del Regno e Grandi di Spagna.
Vorrei, brevemente, ancora citare in ordine crescente e per data, i titoli nel tempo spettanti ed ereditati dalla Famiglia Notarbartolo: Signori di Carciulla, con Francesco Notarbartolo di Villarosa (1788); Signori di S. Giacomo con Francesco Notarbartolo e Zani (1784); Baroni di Garba con Francesco Notarbartolo Giacchetto (1725); Baroni di Bombinetto con Francesco Notarbartolo (1674); Baroni di Sichechi con Giuseppe Notarbartolo (1628); Baroni di Vallelunga con Vincenzo Notarbartolo (1568); Baroni di Carcaci con Pietro Notarbartolo (1646); Baroni di Zandro con Placido Notarbartolo (1771); Conti di Priolo sempre con Placido Notarbartolo (1785); Marchesi di San Giovanni con Francesco Notarbartolo (1785); Marchesi di Maraelio con Giovanni Notarbartolo (1772); Duchi di Villarosa con Placido Notarbartolo (1770); Principi di Furnari con Francesco Notarbartolo (1844); Principi di Sciara con Filippo Notarbartolo (1671); Principi di Castelreale con Francesco Notarbartolo (1809). Altri titoli minori, come si evince dal volume di Papalia, appartengono al patrimonio storico-genealogico della Famiglia.
Come si è accennato, dal capostipite Luchino Notarbartolo si è dato origine a quattro rami familiari: Linea dei principi di Sciara e Castelreale, Marchesi di san Giovanni, da Filippo (1671) all’attuale Capo Famiglia, Principe Don Francesco Saverio (1833). La linea dei Principi di Furnari con Francesco (1844), da cui, oggi, Alberto (1934); la linea dei Duchi di Villarosa con Placido (1770), da cui, oggi, Carlo (1933); la linea dei Conti di Solandro con Filippo (1820), da cui oggi Filippo (1948), che ha sposato in prime nozze Coralie, figlia del Principe Don Gaetano Hardouin Ventimiglia di Belmonte, nipote di d’Annunzio, che fu consigliere comunale fra questi banchi.
L’attuale XI Principe di Sciara, VIII Principe di Castelreale e VIII Marchese di San Giovanni la Mendola, Don Francesco Saverio è nato – come racconta lo stesso al Papalia nel libro – nelle stanze di Porta Nuova di Palermo: “Era il 15 gennaio 1933, una domenica, alle ore 19.25, primogenito di papà Gaetano, X Principe di Sciara e Castelreale e Marchese di San Giovanni La Mendola (per successione al cugino Francesco), di mamma Nicoletta Scipioni Cianci Leo di Sanseverino figlia del Senatore del Regno, Generale di Capo d’Armata Scipione Scipioni, la nobile Adele. Tale, inconsueto, luogo fu dovuto al fatto che a mio nonno, Generale Comandante la Piazza della Sicilia, furono assegnati due alloggi: uno proprio a Palazzo Reale, l’altro a Villa Igiea; però lui accettò quello di Palazzo Reale. Mia madre essendo molto affezionata a mio padre, chiese di potere stare con lui e quindi il parto avvenne in quelle stanze”.
Il Principe Giovanni (Palermo 1894) padre di Don Francesco Saverio, muore a Palermo nel 1971. Era stato ammesso nel SMOM nel 1946, ed ebbe quattro figli: Francesco Saverio, Maria Giuseppina, Filippo e Adelaide. Don Francesco sposa alla Cappella Palatina nel 1954 Donna Giovanna Maria Balletti e hanno tre figli: Nicoletta, Gaetano e Donatella. Donna Giovanna Maria, in arte Ketty di Sciara, è artista di livello internazionale, fu prediletta da Giorgio De Chirico, ha esposto in tutto il mondo con successo di critica e pubblico ed in particolare a Parigi dove è molto apprezzata. E’ inserita nel più celebre fra i dizionari d’arte, il Benezit. Don Francesco, laureatosi in Giurisprudenza, che ha voluto e patrocinato il volume, così ben curato dal Cav. Papalia, è sempre rimasto fedele alla tradizione di famiglia, impegnandosi nel sociale con prestigiosi incarichi pubblici: la Vicepresidenza e il Reggimento Vicario dell’Istituto Francesco Paolo Gravina P.pe di Palagonia, presso l’Albergo delle Povere, in Corso Calatafimi, il cui fondatore, fra l’altro, è lontano antenato dello stesso Principe.
Uomo onesto e generoso, sempre pronto a spendere il Suo nome illustre per il bene comune, l’attuale Principe si è impegnato sul piano civico , meritando larghi consensi. E’ Cavaliere di Gran Croce di Giustizia del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio dei Borbone Due Sicilie, nel ramo detto “spagnolo”, che ha quale attuale Gran Maestro S.A.R. il Principe Don Pietro. A Don Francesco si devono, inoltre, molte iniziative culturali e benefiche.
Tali valori sono patrimonio storico e morale che Egli trasmette costantemente ai suoi figli.
Sarebbe impossibile e volentieri rimandiamo al libro di Papalia (che ha – fra l’altro – uno splendido ed esclusivo “corredo” fotografico e documentario), accennare ai personaggi di Casa Notarbartolo e ancor più impervio alle varie alleanze matrimoniali, alcune già citate. Ricorderò soltanto, oltre i già menzionati, Vincenzo 1° Signore della Gulfa, il cui monumento funebre è in Polizzi Generosa nella Chiesa Madre; Ugo, Cavaliere SMOM (1588) Governatore del Monte di Pietà di Palermo, Senatore (1606 -07) per il quartiere della Loggia, Capitano di Giustizia (1608 – 09), Maestro Portulano del Regno e Visitatore Generale; Giovanni, III Barone di Sichechi, Giurato e Capitano di Giustizia a Polizzi; l’Abate Gioacchino (1175 – 1862); il gesuita Pietro (1561 – 1632); il Barone di Carcaci Pietro (1610 – 1651) Capitano di Giustizia e Giurato di Termini Imerese; il 3° Barone di Carcaci Pietro (1674 – 1716), Colonnello del Regno di Spagna e Governatore della Città di Marsala, con lettere Patenti del Re Vittorio Amedeo di Savoia Re di Sicilia del 14 luglio 1714; Ugone (1700 – 1762) 1° Marchese di Buonfornello, Capitano dei Granatieri, Superiore della Congregazione dell’Annunziata di Casa Professa e Deputato dell’Albergo dei Poveri, che sposerà Anna Santostefano della Cerda; Francesco Paolo IV Principe di Sciara e I° Marchese di San Giovanni La Mendola e I° Principe di Castelreale (Termini Imerese 1777 – Napoli 1823), Gentiluomo di Camera, Cavallerizzo di S.A.R. il Duca di Calabria e Cavaliere di San Gennaro; Francesco Paolo (1806 – 1884), Consigliere Provinciale nel 1845, Presidente del Consiglio Provinciale di Girgenti (1856) e di Trapani (1858), Gentiluomo di Camera di Re Francesco II delle Due Sicilie Cavaliere di Malta e di San Gennaro, che sposerà a Palermo, nel 1855, la Principessa di Cutò Nicoletta Filangeri Pignatelli (1799 – 1864) vedova, ma dopo non felice matrimonio e separata da tempo, del principe Francesco di Paola Gravina di Palagonia, sant’uomo e benefattore, Pretore e amministratore di Palermo, oggi Servo di Dio.
Pur essendo i Notarbartolo, famiglia con molti esponenti unitari nel periodo del Risorgimento, come il volontario garibaldino Emanuele di cui si dirà, va ricordato – come scrive il Papalia - che i due coniugi Francesco Paolo e Nicoletta, vollero seguire l’ultimo Re delle Due Sicilie in esilio a Parigi, dove moriranno. Non ebbero figli e il titolo passò al fratello Giovanni Antonio.
Certamente assai ben noto dai palermitani, almeno dalla toponomastica che lo ricorda con una importante arteria cittadina, è il primo vero martire ucciso dalla mafia: Don Emanuele Notarbartolo di S. Giovanni, dei Principi di Sciara, nato a Palermo il 23 febbraio 1834 assassinato a Trabia il 1 febbraio 1893, figlio di Leopoldo Notarbartolo, 5° Principe di Sciara e di Maria Teresa Vanni.
Uomo onesto, integerrimo, perseverante e battagliero, visse in gioventù all’estero: Parigi, Londra, Bruxelles, poi a Firenze, divenendo amico dei rampolli Lanza di Trabia e di Scalea e di Mariano Stabile, personaggi nodali della successiva vita politica palermitana. Liberale con Francesco Lanza di Scalea, Emanuele, nel 1859, entrò nell’esercito sabaudo del Regno Sardo e partecipò all’impresa dei Mille. Dopo molte vicessitudini rientrò a Palermo e nel 1865 sposò Marianna Merlo dei Principi di Santa Elisabetta e quindi svolse attività politica. Fu esponente della Destra Storica moderata, e Sindaco Antonio Starrabba di Rudinì, fu nominato Assessore.
Nel 1869 fondò e diresse il “Corriere Siciliano”, da cui si dimise per entrare nel consiglio di Amministrazione dell’Ospedale di Palermo, poi divenendone il Presidente: ne migliorò le strutture, raddoppiò i posti letto, sanò le finanze. Fu eletto Sindaco di Palermo, e rimase in carica dal 28 settembre 1873 al 30 settembre 1876: fra le sue opere principali. la posa della prima pietra del Teatro Massimo; il prolungamento della via Libertà da Piazza Alberico Gentili a Villa Pajno; la costruzione del cimitero dei Rotoli, e l’avvio del nuovo Porto di Palermo. Nel 1876 fu Direttore Generale del Banco di Sicilia, fino a febbraio 1890, compito che svolse con onestà e grande competenza amministrativa. Istituì i concorsi fra le Società Operaie di Mutuo Soccorso, aiutò la Cassa dei Piccoli Prestiti per gli operai, sviluppò la Cassa Nazionale di Assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, creò le cucine economiche durante le epidemie di colera del 1855. Fu costretto a lasciare il Banco di Sicilia nel 1890 per le trame ordite alle sue spalle di uomo libero e legalitario. Fu successivamente sequestrato. Fece grandi rivelazioni sugli intrecci politici – finanziari che coinvolsero il deputato Raffaele Palizzolo e altri fu assassinato nel 1893 a Trabia mentre viaggiava in treno.
Questo fu certamente il primo delitto eccellente della mafia.
Un Suo busto, opera di Antonio Ugo, è posto al Palazzo delle Finanze già sede del Banco di Sicilia e uno, di Mario Rutelli, nelle stanze del Palazzo delle Aquile del Comune. Una lapide funebre si trova accanto a quella dei genitori a S. Stefano alla Zisa. Don Francesco, presentando il volume di Papalia, scrive giustamente che “Palermo ha visto immolarsi il miglior figlio della Sua città (…) ucciso dalla mafia per il solo e unico “delitto” di aver tentato di risanamento del Comune e del Banco di Sicilia, e che purtroppo è stato da tutti dimenticato. Ma la storia è fatta di corsi e ricorsi e chissà, forse un giorno, ci si ricorderà di Emanuele e si saprà dare il giusto valore al Suo sacrificio”.
Parole vibranti queste del Principe Francesco, alle quali tutti certamente ci associano, sicuri che si possano ricondurre agli auspici di tanti che chiesero e chiedono verità e giustizia per Emanuele Notarbartolo, a cominciare da Napoleone Colajanni e Alessandro Tasca Filangeri di Cutò.
Resta pure un volume scritto nel 1911 di Leopoldo Notarbartolo, figlio di Emanuele, corretto fra il 1916 e il 1936 e stampato, in prima edizione, in solo 200 copie, a Pistoia nel 1949. Una lettura illuminante, che l’editrice Novecento ripubblicò meritoriamente, con il titolo La città Cannibale. Il memoriale Notarbartolo, nel 1994.

L’occasione felice del libro di PAPALIA sui NOTARBARTOLO è veicolo ulteriore e prezioso per ripensare alla Storia intesa come magistero della vita, individuale e sociale, per non dimenticare, per consegnare intense pagine vive del passato delle famiglie, le biografie – le scritture della vita, non lo dimentichiamo, sono indispensabili – di un’intera comunità che ci si possa continuare ad essere civile.