sabato 30 luglio 2016

Sull’idea di Aristocrazia

di Carmelo Muscato

Il termine “aristocrazia” sopravvive nel mondo moderno come cimelio di un mondo che ormai non è più, mentre nel mondo premoderno o tradizionale esso costituiva un concetto centrale tanto nella organizzazione sociale che nella riflessione politica.
Secondo la classica divisione dei regimi costituzionali delineata da Platone nel Politico, poi ripresa da Aristotele, da Cicerone e altri ancora, ci sono tre forme di governo sane: monarchia, aristocrazia e democrazia, a seconda che il governo sia retto da uno, da pochi o da molti. Queste tre forme di governo, degenerando, danno luogo a tre forme deteriori di regimi: tirannide e oligarchia le prime due, un regime variamente denominato la terza. Tra parentesi in Platone, Aristotele e anche oltre il termine democrazia tende a indicare più la forma degenerata del governo dei molti che quella sana, ma questo, che pure è un aspetto importante, riguarda altro un discorso.
Come è facile notare nell’orizzonte politico moderno sopravvivono i termini di questa antica classificazione ad eccezione appunto del termine aristocrazia. Per descrivere gli attuali regimi costituzionali possiamo servirci del concetto di democrazia ma anche quello di monarchia o tirannide, magari con il sinonimo di dittatura, così come del concetto di oligarchia. Certo, è mutata la logica della classificazione platonica, per cui per esempio le monarchie europee sono anche delle forme di democrazia. Ma i termini permangono, ad eccezione appunto del termine aristocrazia.
Che cosa è accaduto con la rivoluzione moderna che ha messo in soffitta il termine aristocrazia? Innanzitutto possiamo osservare che, avendo la borghesia scalzato l’aristocrazia, ora l’articolazione sociale è tutta all’interno di quello che era il “terzo stato”. Per comprendere il significato di questa sostituzione sul piano sociale, e quindi politico, possiamo passare dal mutamento osservabile nella realtà esterna al più intimo mutamento concettuale. Riflettendo sull’etimo del termine aristocrazia, come è a tutti noto, oi aristoi in greco significa i migliori. Messa da parte la reazione negativa che tale significato suscita nella mentalità egualitaristica moderna, possiamo notare che nella riflessione platonica è determinante il riferimento al Bene. “Migliore” è superlativo di “buono” e i guardiani della kallipoli sono i migliori perché guardano al Bene. Ora chiediamoci: perché aristocrazia è diventato un termine in disuso? Perché il problema del Bene in età moderna è stata rimosso. Se i guardiani in Platone sono gli aristoi perché guardano al Bene, ora borghesia e proletariato sul versante sociale, monarchia, democrazia o oligarchia sul quello politico, possono sussitere senza alcun riferimento al Bene.
Ciò in quanto si è ritenuto che il Bene al singolare, cioè l’idea metafisica e dunque filosoficamente più problematica, potesse essere agevolmente sostituito dai beni al plurale, siano essi beni materiali e oggettivi, o siano beni psicologici, il benessere soggettivo. Ma è veramente possibile occuparsi dei beni o del benessere contingente, aggirando l’ardua questione del Bene metafisico? In realtà ciò non è che un illusione. Che cosa sono i beni contingenti, quelli che non pretendono di costituire un bene assoluto ma che hanno comunque il vantaggio di essere misurabili, facilmente individuabili e agevolmente trattati dal punto di vista razionale? Sono stati di essere considerati buoni non in sé ma in vista di qualcos’altro, quindi qualcosa che parla non del Bene assoluto ma del bene relativo. L’abbaglio consiste nel non accorgersi che anche i beni relativi e contingenti in realtà rimandano al Bene in sé e lo presuppongono in maniera imprescindibile, anche se non immediatamente evidente. Come il mezzo inevitabilmente presuppone il fine, qualcosa può essere considerato un bene relativo solo in quanto, anche indirettamente è collegato al Bene in sé. Posso considerare un bene laurearmi anche se la laurea in sé non è un Bene, in quanto la laurea può costituire un mezzo in vista di un fine, per esempio ottenere un lavoro o realizzare una carriera. E quest’ultimo stato a sua volta può anche non essere un bene assoluto ma un bene contingente, in quanto è anch’esso un mezzo in vista di uno stato successivo considerato fine, e così via. Tuttavia questo modo di considerare i beni relativi può funzionare solo in quanto ammettiamo, consapevolmente o meno, che alla fine della catena, non importa quanti numerosi siano gli anelli, risieda qualcosa che è il Bene in sé, ossia qualcosa che sia fine ultimo e non solo un fine in vista di un fine ulteriore. Quello che Aristotele spiega così: “Se poi vi è un fine delle nostre azioni che noi vogliamo di per se stesso, mentre gli altri li vogliamo solo in vista di quello, e non desideriamo ogni cosa in vista di un’altra cosa singola (così infatti si andrebbe all’infinito, cosicché la nostra tendenza sarebbe vuota e inutile), in tal caso è chiaro che questo dev’essere il bene e il bene supremo”[1].
Da questo punto di vista, nonostante possa sembrare invecchiato e inutile, il concetto di aristocrazia ha una validità sempre attuale: infatti l’idea metafisica di Bene è, e non può non essere, un’idea imprescindibile. Solo una sciagurata inconsapevolezza può farci credere che non sia così. Sempre facciamo riferimento al Bene, anche se non ce ne accorgiamo. Possiamo considerare una significativa questione dei nostri giorni che tanto ha fatto e continua a far discutere: la legge emanata dall’attuale governo, chiamata “la buona scuola”. Possiamo mettere da parte ogni discussione e immaginare Socrate che con la sua ironia così si rivolga a chi ha fatto la legge: “oh divino Renzi, devi essere davvero un conoscitore del Bene per essere riuscito a individuare quale sia la buona scuola!”. Solo la superficialità può farci credere che sia possibile riconoscere la buona scuola dalla cattiva scuola anche senza aver affrontato il problema del Bene. E così, ancora, nella scuola come in altri ambiti della società, si discute molto di meritocrazia, illudendosi che si possano individuare i meriti, senza essersi preoccupati di sapere cosa sia il Bene.
Allora, nonostante sia caduto in disuso, il concetto di aristocrazia ha una validità sempre attuale, come sempre imprescindibile è il Bene che esso richiama. Ecco perché l’organizzazione socio-politica nel mondo tradizionale è comunque sempre una forma di aristocrazia: anche laddove c’è un re siamo sempre in presenza di un assetto che trova la sua centralità nell’aristocrazia, non tanto per la sua preminenza intesa in senso stretto come classe sociale, ma per il significato più ampio e più profondo del concetto. Non a caso, a parte la classificazione del Politico, la kallipoli, ossia la polis ideale, delineata nella Repubblica platonica è una polis aristocratica, nel senso che l’ottima costituzione – quella da cui per graduale decadimento sorgeranno rispettivamente: timocrazia, oligarchia, democrazia e tirannide – è la costituzione aristocratica.
Da questo punto di vista non c’è contrapposizione tra monarchia e aristocrazia. Anche il termine re, che dal latino rex rimanda alla radice indeuropea (da cui il sanscrito “raja” e il tedesco “reich”), indica ‘il punto raggiunto in linea retta’. Re nel suo significato originario, non è tanto il detentore del potere, ma colui che conosce ciò che è retto, la linea retta, la via da seguire. Come ricorda Benveniste, il rex indoeuropeo è molto più religioso che politico. Il suo compito non è di comandare ma di fissare le regole, di determinare ciò che è in senso proprio ‘retto’. Ossia il Bene.




[1] Aristotele, Etica Nicomachea, I, 1094a.

giovedì 14 luglio 2016

Il mediocre e l'Idealista - Nel ricordo di Sancio Panza e di santa Giovanna d'Arco


Il mediocre è interamente assorbito dalle delizie della pigrizia, e dall’esclusivo piacere di ciò che è alla sua portata. Egli non guarda né avanti né in alto. Non analizza, non prevede. La sua vita mentale si esaurisce nella sensazione dell’immediato: le piccole soddisfazioni della giornata, il divano comodo, le ciabatte, il televisore. Ecco il suo piccolo paradiso!
Per il mediocre non esiste nulla all'insù di sé stesso. Egli è il centro e la misura di tutte le cose. Per lui “dedizione” e “ideale” suonano arcaiche, puzzano di muffa. Non vuole arrivare agli estremi delle sue capacità: vuole restare dov’è. Si accontenta del “più o meno”, che è la via più breve per l’inferno.


Lasciamo stare il mediocre e le sue mediocrità sbiadite, e parliamo dell’eroismo intenso.
Noi dobbiamo essere audaci fino all’incredibile, quando è l’ora dell’audacia; prudenti fino all’inimmaginabile, quando è l’ora della prudenza; benigni fino all’inverosimile, quando è l’ora del perdono; severi fino allo sconvolgente quando è l’ora del castigo.
Soprattutto, dobbiamo essere talmente fiduciosi nella Madonna, da confondere i nostri avversari.
Quando Dio vede un’anima così, se ne compiace in modo speciale.


(Plinio Corrêa de Oliveira, 20 giugno 1981).

venerdì 1 luglio 2016

Meister Eckhart, "Dell'uomo nobile"

Nostro Signore dice nel Vangelo: Un uomo nobile partì per un paese lontano per ottenere un regno, e poi tornò. Nostro Signore ci insegna con queste parole a qual punto l'uomo è creato nobile nella sua natura, a quale punto è divino ciò cui può giungere per grazia ed anche come deve arrivarvi. Queste parole sono anche in relazione con gran parte della sacra Scrittura.
Bisogna innanzitutto sapere - e ciò è assolutamente chiaro - che l'uomo ha in sé due nature: il corpo e lo spirito. Perciò un testo dice: Chi conosce se stesso, conosce tutte le creature, perché tutte le creature sono o corpo o spirito. Perciò la Scrittura dice dell'uomo che vi è in noi un uomo esteriore ed un altro: l'uomo interiore. All'uomo esteriore appartiene tutto ciò che inerisce all'anima, avvolto dalla carne e mescolato ad essa, tutto ciò che fa opera corporea comune con ed in ogni membro, come l'occhio, l'orecchio, la lingua, la mano ed altro. La Scrittura chiama ciò uomo vecchio, uomo terrestre, uomo esteriore, nemico, schiavo.
L'altro uomo che è in noi è l'uomo interiore; la Scrittura lo chiama uomo nuovo, uomo celeste, uomo giovane, amico, ed uomo nobile. È a questo che pensa Nostro Signore, quando dice che un uomo nobile partì per un paese lontano per ottenere un regno, e poi tornò.
Bisogna anche sapere che san Gerolamo ed i maestri in generale dicono che, fin dall'inizio della propria esistenza umana, ogni uomo ha uno spirito buono, un angelo, ed uno spirito cattivo, un demonio. L'angelo buono invita e spinge continuamente a ciò che è buono, a ciò che è divino, alla virtù, a ciò che è celeste ed eterno. Lo spirito cattivo invita e sospinge incessantemente l'uomo a ciò che è passeggero, temporale, a ciò che è contrario alla virtù, malvagio e diabolico. Questo stesso spirito cattivo si intrattiene costantemente con l'uomo esteriore e, attraverso esso, tende di continuo ed in segreto inganni all'uomo interiore, proprio come il serpente si intrattenne con Eva, la donna, e, attraverso essa, con Adamo, l'uomo. L'uomo interiore è Adamo. L'uomo nell'anima è l'albero buono, che porta sempre e continuamente frutti buoni, di cui parla Nostro Signore
È anche il campo in cui Dio ha seminato la sua immagine e somiglianza, e dove spande il buon seme, la radice di ogni saggezza, di ogni arte, di ogni virtù, di ogni bontà: il seme della natura divina . Il seme della natura divina è il Figlio di Dio, il Verbo di Dio.
L'uomo esteriore è il nemico, il malvagio, che ha seminato e sparso la zizzania. San Paolo dice di lui: Io trovo in me ciò che mi ostacola, contrario a ciò che Dio ordina, consiglia, a ciò che Dio ha detto e dice ancora nella parte più elevata, nel fondo della mia anima. Altrove egli dice ancora, gemendo: Ahimè! Infelice che sono! Chi mi libererà di questa carne e di questo corpo mortale? Altrove ancora egli dice che lo spirito dell'uomo e la sua carne sono costantemente opposti l'uno all'altro. La carne consiglia il vizio e la malizia; lo spirito consiglia l'amore di Dio, la gioia, la pace ed ogni virtù. La vita eterna appartiene a chi segue lo spirito, a chi vive secondo lo spirito e il suo consiglio. L'uomo interiore è colui del quale Nostro Signore dice che un uomo nobile partì per un paese lontano, per ottenere un regno. È l'albero buono di cui Nostro Signore dice che porta sempre buoni frutti e mai cattivi, perché vuole la bontà, è portato alla bontà, verso la Bontà, quale essa si libra in se stessa, senza essere toccata da questo o da quello. L'uomo esteriore è l'albero cattivo che non può mai portare buoni frutti.
Della nobiltà dell'uomo interiore e della indegnità dell'uomo esteriore, della carne, i maestri pagani Cicerone e Seneca dicono anche che nessuna anima razionale è senza Dio; il seme di Dio è in noi. Se essa avesse un uomo buono, saggio e laborioso che la coltivasse, prospererebbe molto di più e si eleverebbe verso Dio, di cui è seme, e il frutto sarebbe simile alla natura di Dio. Il seme del pero si ingrandisce per diventare un pero, il seme del noce per diventare noce, il seme di Dio per diventare Dio. Ma se il buon seme ha un coltivatore sciocco e malvagio, la zizzania preme, copre e soffoca il buon seme, cosicché esso non può arrivare alla luce, né svilupparsi. Origene, un grande maestro, dice: Poiché Dio stesso ha seminato, sotterrato, generato questo seme, esso può essere coperto o nascosto, ma non è mai distrutto o estinto: è ardente, luminoso, chiaro, e brucia e tende incessantemente verso Dio.
Il primo grado dell'uomo interiore, dell'uomo nuovo - dice sant'Agostino - è quando l'uomo vive secondo il modello delle persone buone e sante, ma ancora si appoggia alle sedie, resta vicino alle pareti e si nutre di latte .
Il secondo grado è quando ormai non guarda più soltanto i modelli esteriori né la gente dabbene, ma si muove di corsa verso l'insegnamento ed il consiglio di Dio e della saggezza divina; volge le spalle all'umanità ed il volto a Dio, sfugge al petto della madre e sorride al Padre celeste.
Il terzo grado è quando l'uomo sfugge sempre più a sua madre, si allontana sempre più dal suo grembo, fugge la preoccupazione, rigetta la paura, tanto che, se anche potesse agire male ed ingiustamente senza scandalizzare alcuno, non ne ha tuttavia il desiderio; infatti egli è unito a Dio dall'amore e dal fervore, finché Dio lo porti e l'introduca nella gioia, nella dolcezza e felicità, nella quale non si può sopportare quel che è dissimile ed alieno da Dio.
Il quarto grado è quando egli cresce e si radica sempre di più nell'amore ed in Dio, in modo tale da esser pronto ad accettare tutto quel che è contrarietà, tentazione, avversità, ed a sopportare la sofferenza di buon grado e volentieri, con desiderio e gioia.
Il quinto grado è quando egli vive chiuso dappertutto in se stesso, riposando in pace nella ricchezza e sovrabbondanza della somma, inesprimibile Saggezza.
Il sesto grado è quando l'uomo è staccato dalle immagini e trasformato al di sopra di se stesso dalla eternità di Dio; quando è giunto al perfetto e totale oblio della vita effimera e temporale, trasformato in una immagine divina, divenuto figlio di Dio. Oltre questo non esiste un grado più alto; qui è riposo e felicità eterna, giacché fine dell'uomo interiore e dell'uomo nuovo è la vita eterna.
Per questo uomo interiore, questo uomo nobile, nel quale è seminato ed impresso il seme divino - come questo seme, questa immagine della natura e della essenza divine, il Figlio di Dio, appare, come lo si percepisce e come, a volte, rimane nascosto - il grande maestro Origene offre un paragone: l'immagine di Dio, il Figlio di Dio, è nel fondo dell'anima come una fonte viva. Ma se si getta su di essa della terra, ovvero il desiderio terreno, essa è ostacolata e coperta, in guisa che non se ne riconosce e non se ne vede più niente; tuttavia essa resta viva in se stessa e, se si toglie la terra, riappare e la si scorge. Lo stesso maestro dice che si allude a questa verità nel primo libro di Mosè, ove è detto che Abramo aveva scavato nel suo campo dei pozzi d'acqua viva, che i malfattori riempirono di terra, ma che poi, quando la terra fu tolta, i pozzi riapparvero vivi.
Si può fare anche un'altra similitudine. Il sole splende senza interruzione; tuttavia, quando una nuvola o una nebbia si pone tra noi ed il sole, noi non vediamo più la sua luce. Nello stesso modo, quando l'occhio è debole, malato o velato, non percepisce la luce. Inoltre, a volte ho fornito un paragone che colpisce: quando un artefice fa un'immagine di legno o di pietra, non introduce l'immagine nel legno, ma toglie i trucioli che coprivano e nascondevano l'immagine; non aggiunge nulla al legno, ma, al contrario, scava e toglie ciò che lo ricopre, leva via le scorie: allora brilla ciò che era nascosto al di sotto. Tale è il tesoro nascosto nel campo, come dice Nostro Signore nel Vangelo .
Sant'Agostino dice: Se l'anima si eleva completamente verso l'eternità, in Dio solo, l'immagine di Dio appare e brilla, ma se l'anima si volge verso l'esterno, anche con l'esercizio esteriore della virtù, l'immagine viene completatamente coperta. È ciò che insegna san Paolo, quando dice che le donne portano la testa coperta e che gli uomini vanno a testa nuda. Perciò tutto quello che, nell'anima, si rivolge al basso, riceve di là un velo che la ricopre, ma ciò che, nell'anima, si eleva verso Dio, è la pura immagine di Dio, la nascita di Dio senza velo, spoglia nell'anima spoglia. Dell'uomo nobile, immagine di Dio, figlio di Dio, seme della natura divina che non è mai distrutta in noi, anche se può essere ricoperta, il re David dice nel Salterio: Sebbene molte vanità, miserie e sofferenze assalgano l'uomo, egli rimane tuttavia nell'immagine di Dio, e l'immagine di Dio in lui. La luce vera splende nelle tenebre, anche se non la si vede.
Non fate caso al mio colore scuro - dice il libro dell'Amore - io sono bella e ben fatta, ma il sole mi ha abbronzato. Il sole è la luce di questo mondo, e questo significa che ciò che è la cosa migliore e più elevata tra quelle fatte e create, nasconde e scolorisce l'immagine di Dio in noi. Togliete le scorie dell'argento - dice Salomone - ed il vaso più puro deve essere luminoso e brillare: è l'immagine, il figlio di Dio nell'anima. È ciò che vuoi dire Nostro Signore quando parla di un uomo nobile che partì; infatti l'uomo deve abbandonare tutte le immagini e se stesso, allontanarsi e divenire dissimile ed alieno da tutto, se vuole e deve veramente accogliere il Figlio e divenire figlio, nel cuore e nel seno del Padre.
Ogni specie di mediazione è estranea a Dio. Io sono - dice Dio - il primo e l'ultimo. Non esiste distinzione né nella natura di Dio né nelle Persone secondo l'unità della loro natura. La natura divina è uno, ed anche ogni Persona è l'Uno e lo stesso Uno che è loro natura. La distinzione tra essere ed essenza è còlta come Uno, ed è Uno. Soltanto là dove questo Uno non è più in se stesso, egli riceve, possiede e produce una distinzione. Perciò nell'Uno si trova Dio, e chi vuole trovare Dio deve divenire uno. Un uomo partì, dice Nostro Signore. Nella distinzione non si trova né l'Uno né l'essere, né Dio, né riposo, né beatitudine, ne soddisfazione. Sii uno, per poter trovare Dio. E, in verità, se tu fossi veramente uno, resteresti uno anche nella diversità, e la diversità diverrebbe uno per te e non potrebbe ostacolarti assolutamente in nulla. L'uno rimane ugualmente uno in mille volte mille pietre come in quattro pietre, e mille volte è altrettanto un numero semplice quanto quattro è un numero.
Un maestro pagano dice che l'uno è nato dall'Altissimo. La sua natura è di essere uno con l'Uno. Chi lo cerca al di sotto di Dio, si inganna. In quarto luogo, dice lo stesso maestro, questo Uno non ha amicizia maggiore che con le fanciulle, o vergini, come dice san Paolo: Io vi ho, vergini pure, affidate e fidanzate all'Uno. È così che l'uomo dovrebbe essere; infatti Nostro Signore dice: Un uomo partì.
Uomo, secondo il significato del nome in latino, designa, in un senso, colui che si inclina davanti a Dio e si sottomette a Lui con tutto ciò che è e che ha, che guarda in alto verso Dio, non verso quel che gli appartiene, che sa essere dietro lui, sotto di lui, accanto a lui. Tale è la piena e vera umiltà: l'uomo ha questo nome dalla terra. Non ne parlerò oltre. Quando si dice uomo, questa parola significa anche qualcosa di elevato al di sopra della natura, al di sopra del tempo, al di sopra di tutto quel che è rivolto al tempo o ha il gusto del tempo, ed io dico la stessa cosa anche dello spazio e della corporeità. Inoltre, questo "uomo" non ha, in certo modo, niente di comune con quel che sia, ovvero non ha né forma né rassomiglianza con questo o con quello, e non sa niente di niente, in guisa tale che non si trova e non si coglie in lui in alcun modo il nulla, che gli è totalmente tolto, ed in lui si trova soltanto vita pura, essere, verità, bontà. Chi è cosiffatto, è un uomo nobile, in verità, né più né meno.
C'è ancora un altro modo di spiegazione ed un insegnamento per quel che Nostro Signore chiama un uomo nobile. Infatti si deve sapere che chi conosce Dio senza velo, conosce anche le creature nello stesso tempo che lui, giacché la conoscenza è una luce dell'anima e, per natura, tutti gli uomini aspirano alla conoscenza, in quanto anche la conoscenza delle cose cattive è buona. Ora i maestri dicono: Quando si conosce la creatura in se stessa, si ha una conoscenza vespertina, perché così si vedono le creature per immagini con molteplici distinzioni; ma quando si conoscono le creature in Dio, questa conoscenza si chiama ed è mattutina, e così si contemplano le creature senza alcuna distinzione, prive di ogni immagine e liberate da ogni rassomiglianza, nell'Uno che è Dio stesso. Anche questo è l'uomo nobile di cui Nostro Signore dice che partì: nobile perché è uno e riconosce Dio e la creatura nell'Uno.
Voglio ora passare a parlare di un altro significato di ciò che è uomo nobile. Io dico: quando l'uomo, l'anima, lo spirito contempla Dio, si sa e si riconosce come conoscente, ovvero riconosce che contempla e riconosce Dio. Ora è sembrato ad alcuni, e pare anche molto verisimile, che il fiore ed il nucleo della beatitudine si situino nella conoscenza con la quale lo spirito conosce di conoscere Dio, giacché se io possedessi tutte le delizie senza saperne niente, cosa mi importerebbe, e come potrebbero essere delizie per me? Tuttavia io dico con certezza che non è così. Se è vero che, senza di ciò, l'anima non sarebbe beata, nondimeno la beatitudine non si situa in ciò, giacché il primo elemento della beatitudine è che l'anima contempli Dio senza velo. È di là che essa riceve tutto il suo essere e la sua vita e che attinge tutto ciò che essa è nell'abisso di Dio, e non sa niente della conoscenza, né dell'amore né di quel che sia. Essa riposa totalmente ed esclusivamente nell'essere di Dio, non conosce in ciò che l'essere e Dio. Ma quando essa sa e riconosce di stare contemplando, conoscendo ed amando Dio, esce da questo stato e ritorna allo stato primario secondo l'ordine naturale. Infatti nessuno si riconosce come bianco se non colui che è realmente bianco. Perciò chi si conosce come bianco, si fonda e si appoggia sulla bianchezza, e deriva la sua conoscenza non direttamente né senza conoscenza del colore, ma deriva la sua conoscenza dal colore e dal sapere che ha di ciò che è bianco, ed attinge la sua conoscenza non esclusivamente dal colore in sé; piuttosto egli attinge il suo sapere e la sua conoscenza da ciò che è colorato o da ciò che è bianco e si riconosce come bianco. Bianco è qualcosa di assai minore e di molto più esteriore della bianchezza. Molto diversi sono il muro e le fondamenta sulle quali il muro si costruisce.
I maestri dicono che la potenza grazie alla quale l'occhio vede è diversa dalla potenza con la quale sa di vedere. Il fatto di vedere, egli lo deriva esclusivamente dal colore, non da ciò che è colorato. Per cui importa poco che ciò che è colorato sia pietra o legno, uomo o angelo, perché l'essenziale sta nel fatto che abbia un colore.
Nello stesso modo io dico che l'uomo nobile prende ed attinge la sua beatitudine, tutto il suo essere e la sua vita, unicamente da Dio, vicino a Dio ed in Dio, non dalla conoscenza, dalla contemplazione e dall'amore di Dio o altre cose simili. Perciò Nostro Signore dice assai giustamente che la vita eterna consiste nel conoscere Dio solo come l'unico vero Dio, non nel conoscere che si conosce Dio. Come l'uomo potrebbe conoscersi come conoscente Dio, quando non si conosce neppure in se stesso? Perché certamente l'uomo non conosce né se stesso né le altre cose, ma unicamente Dio solo, in verità, quando diviene ed è beato nella radice e nel fondo della beatitudine. Ma quando l'anima riconosce di conoscere Dio, allora acquisisce nello stesso tempo la conoscenza di Dio e di se stessa.
V'è un'altra potenza, come ho spiegato, grazie alla quale l'uomo vede, rispetto a quella per cui sa e riconosce di vedere. È vero che ora, quaggiù, in noi, questa potenza con la quale sappiamo e riconosciamo di vedere, è più nobile e più alta di quella con cui noi vediamo, perché la natura comincia la sua operazione dal più basso, mentre Dio, nelle sue opere, comincia da ciò che è più perfetto. La natura produce l'uomo a partire dal bambino e la gallina a partire dall'uovo, ma Dio fa l'uomo prima del bambino e la gallina prima dell'uovo. La natura prima rende il legno caldo e bruciante, e soltanto poi produce l'essere del fuoco, ma Dio dona prima l'essere a tutte le creature e poi nel tempo, e tuttavia fuori del tempo, separatamente, tutto ciò che appartiene all'essere. Nello stesso modo, Dio dona lo Spirito Santo prima dei doni dello Spirito Santo.
Io dico dunque che non v'è beatitudine senza che l'uomo abbia coscienza e sappia bene di contemplare e conoscere Dio, ma Dio voglia che non sia in ciò la mia beatitudine. Se ciò a un altro basta, sia pure così, ma io ne ho pietà. Il calore del fuoco e la natura del fuoco sono completamente diversi ed estremamente lontani nella natura, anche se sono assai vicini l'uno all'altro nello spazio e nel tempo. La veduta che è di Dio e la mia veduta sono assolutamente diverse e lontane l'una dall'altra.
Perciò Nostro Signore ha ragione nel dire che un uomo nobile partì per un paese lontano per ottenervi un regno, e poi tornare. Infatti l'uomo deve essere uno in se stesso e cercare l'uno in sé e nell'Uno, e riceverlo nell'Uno, ovvero unicamente contemplare Dio e ritornare, ovvero sapere e riconoscere che si ha un sapere ed una conoscenza di Dio. Il profeta Ezechiele ha espresso già questo fatto qui esposto, quando disse che una potente aquila con le grandi ali, di grande apertura, coperta di ogni sorta di piume, venne verso la nobile montagna, tolse il midollo o il nucleo dall'albero più elevato, strappò la corona del suo fogliame e la portò verso il basso. Ciò che Nostro Signore chiama un uomo nobile, il profeta lo chiama una grande aquila. Chi è dunque più nobile di colui che è nato, da una parte dall'elemento più alto e migliore della creatura, dall'altra dal fondo più intimo della natura divina e della sua solitudine? Io voglio condurre l'anima nobile nella solitudine, e là parlerò al suo cuore - dice il Signore attraverso il profeta Osea -. Uno con l'Uno, uno dall'Uno, uno nell'Uno e, nell'Uno, eternamente uno. Amen.