martedì 28 marzo 2017

L'esilio infinito di Umberto II e delle salme dei Re d'Italia

di Aldo A. Mola

Come si demoliscono uno Stato e la sua Nazione? Si isola il suo Capo, lo si spoglia dei simboli della sovranità. Si recidono le radici e si svuota il tronco, anno dopo anno svigorito,  rinsecchito. E' quanto avvenne ai danni dell'Italia e dei suoi cittadini dal 1943: con l'assalto, parte frontale, parte subdolo alla sua Istituzione portante: la monarchia di Savoia, protagonista e garante dell'unità nazionale. L'Europa oggi in affanno è il risultato della Guerra dei Trent'anni del secolo scorso (1914-1945), che si sostanziò nel crollo di quattro Imperi e nella lotta sanguinosa tra gli Stati inventati con le catastrofiche paci del 1919-1920. Lo zar di Russia fece la fine peggiore: assassinato con tutta la famiglia a Ekaterinburg per ordine di Lenin, che ne fece colare il sangue tra la Santa Russia e la Rivoluzione. Mentre l'ultimo Sultano dell'impero turco-ottomano vagava sulla Costa Azzurra, in cambio del dominio su Costantinopoli Ataturk abbozzò uno Stato moderno, oggi rimpianto. Carlo VI d'Asburgo tentò invano di risollevare le insegne della sua dinastia. Gli Stati Uniti volevano la testa di Guglielmo II Hohenzollern prima di concedere alla Germania l'armistizio. Il Kaiser riparò in Olanda, paese neutrale sotto tutela indiretta della Gran Bretagna, mentre era in corso la “repubblicanizzazione d'Europa”, brodo di coltura di nazionalismi e di totalitarismi come ha scritto François Fejto.
Il Regno d'Italia fu l'unica monarchia continentale di peso uscita dalla Grande Guerra non solo indenne ma con ingrandimento territoriale significativo: il crinale alpino dal Brennero a Monte Nevoso, lembi italofoni della Dalmazia, le colonie prebelliche, a cominciare da Libia, Rodi e il Dodecanneso: era l'Idea di Roma,  anche senza impero d'Etiopia e corona di Albania. Quel Regno non ebbe né alleati sinceri né alcuna potenza amica. L'immensa documentazione (solo in parte agevolmente disponibile: rimangono inediti i verbali del Consiglio dei Ministri dal 1921 al 1943) prova che nel 1943-1946 l'obiettivo dei vincitori fu la demolizione della monarchia per cancellare definitivamente l'Italia dal novero delle aspiranti Grandi Potenze.
Con la “resa senza condizioni” dell'8-29 settembre 1943 Vittorio Emanuele III salvò lo Stato. Ma ai vincitori non bastava. Volevano un'Italia più debole e rinunciataria. Non solo militarmente sconfitta, ma umiliata e demoralizzata. V'era un solo modo sicuro per arrivarvi: eliminare la monarchia. Contrariamente a quanto balbettano manuali e “media”, in Italia la monarchia fondeva insieme Casa Savoia, repubblicani realistici (Francesco Crispi) e garibaldini. Era la sintesi di memorie letterarie, civiche, monumenti, frutto di tre generazioni  che per l'Italia si erano sacrificate. Era depositaria di simboli e di riti. Il Pantheon, eretto a mausoleo della Dinastia e l'Altare della Patria, il Vittoriano, sede del Museo del Risorgimento e dell'Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano presieduto da Romano Ugolini, ne sono la sublimazione: il collegamento tra quella dei Consoli e dei Cesari, dei Comuni e delle Signorie e la Terza Italia, che non è un'invenzione del “fascismo” ma idea portante dell'età liberale e riformatrice, vittoriano-giolittiana.
Per abbattere quell'Italia bisognava svuotarla dall'interno. L'offensiva iniziò con l'assalto al Senato del Regno, inviso a estremisti e a clericali perché era il principale bastione non solo della monarchia ma della società nazionale. Stolidamente Pietro Badoglio, militare di mai provato pregio e politicamente inetto, il 2 agosto 1943 abolì la Camera dei fasci e delle corporazioni. Così annichilì il Parlamento che era (e deve rimanere) bicamerale, come quello britannico. A quel punto, dopo lunghe traversie, scattò la fase successiva. Il Commissariato per l'Epurazione, guidato da Carlo Sforza, Collare della Santissima Annunziata e senatore mai dimissionario anche se residente all'estero (non “in esilio” come poi per adulazione si disse e si scrisse), e dal tardo giacobino Mario Berlinguer, dichiarò decaduti dalla carica tutti i “patres” tranne 22. Senatori erano ambasciatori, ministri, generali, ammiragli, politici di alto merito, magistrati, scienziati, “illustrazioni della patria” e imprenditori di tutti i settori: la crema della Nazione. Essi vennero privati dei diritti civili (e quindi estromessi dalla guida delle imprese che avevano creato) e politici: ghettizzati e impossibilitati a usare risorse e influenze a sostegno dell'Italia che avevano forgiato. Furono declassati a cittadini di serie B. Dovettero ripiegarsi su sé stessi e le loro famiglie. Tra i senatori dichiarati decaduti da Sforza, l'ammiraglio Inigo Campioni era stato processato dalla Repubblica sociale per alto tradimento e fucilato, come l'ammiraglio Mascherpa, massone. Un altro, Elia Morpurgo, ebreo, era morto mentre veniva deportato dai nazisti. L'elenco potrebbe continuare a lungo. Ma Sforza - vuoi per vanesio protagonismo, vuoi perché strumento altrui (“Vi mando il vecchio scemo” scrisse di lui Churchill quando lo seppe in rotta per l'Italia) - mirava alla liquidazione di Vittorio Emanuele III.
Privo della legione sacra dei senatori, da Luogotenente e re per poche settimane, Umberto II fece il possibile per rialzare le sorti del Paese, diviso in due e preda di opposti corvi. In un’intervista a un giornalista straniero disse quel che tutti pensavano: nessuno si era opposto all'ingresso in guerra il 10 giugno 1940. L'avesse mai detto. Anche chi, come Benedetto Croce, non s'era pubblicamente opposto all'intervento, si scagliò contro di lui: salvo essere a sua volta sprezzantemente liquidato come connivente del passato remoto dal comunista Palmiro Togliatti, reduce in Italia dal paradiso di Stalin e della Terza Internazionale.
Costretti all'esilio o al silenzio, molti patres tacquero e non interposero alcun ricorso. Fu il caso di Luigi Federzoni, presidente del Senato dal 1929 al 1939, braccato. Aldo G.Ricci ne pubblica il Diario inedito, denso di rivelazioni. I procedimenti penali a carico di altri si chiusero con “non luogo a procedere” per sopravvenuto decesso. Diciannove ottennero la revoca ordinaria della decadenza: Luigi Burgo. Giacomo de Martino, Pietro Gazzera, già ministro della Guerra... Ben 182 ottennero l'annullamento della decadenza da parte della Cassazione: ma solo dopo il referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946. Con sentenza dell'8 luglio 1948, depositata il 26 ottobre dello stesso anno, essi ridivennero senatori di pieno diritto quando ormai non erano più in grado di nuocere. L'Italia si trovò così in una condizione paradossale. Umberto II il 13 giugno era partito per l'estero. Il 19 giugno la Gazzetta Ufficiale annunciò la nascita della Repubblica, ma i senatori del regno erano reintegrati nel nome e nelle prerogative. Con la legge costituzionale n. 3 del funereo 3 novembre 1947 la Costituente approvò la “soppressione del Senato (del regno)”.

Nel frattempo la stessa Assemblea decretò l'esilio per il re e i suoi discendenti maschi (così implicitamente rese omaggio alla legge salica e alle norme immutabili della  Real Casa) e varò norme a carico di “chiunque svolga attività fascista o attività diretta alla restaurazione dell'istituto monarchico”: reclusione da tre a dodici anni di carcere. Non solo: si stabilì che “chiunque con i mezzi indicati nel precedente articolo fa propaganda per la restaurazione della dinastia sabauda è punito con la reclusione da sei mesi a due anni”. Contro la verità della storia, costituenti e legislatori repubblicani fecero tutt'uno di monarchia e fascismo. Dal tricolore venne tolto lo scudo di Savoia. Lo Stato ebbe un emblema farraginoso. E l'Italia rimase, com’è, senza inno nazionale. Patriam recuperare divenne l'insegna di movimenti culturali e politici fondati sulla ricerca storica e tesi a restituire all'Italia i simboli della sua storia e le spoglie dei suoi Capi di Stato, come hanno fatto tutti i paesi d'Europa, finalmente liberi da regimi totalitari. L'Italia è ancora lontana dalla meta. Perciò non è vano rievocare fatti e figure del passato, a cominciare dall'ultimo sovrano, Umberto II, che dal padre non ereditò solo la corona ma anche il motto “Italia innanzi tutto”. 

lunedì 20 marzo 2017

Tommaso Romano, "Elogio della Distinzione" (Ed. Thule)

di Franco Trifuoggi

La consacrazione di un saggio ampio ed analitico al tema della distinzione può apparire, al lettore avvezzo alla quotidiana celebrazione massmediatica della sagra del politicamente corretto, del luogo comune e del conformismo consumistico, fuori luogo, sconcertante, o addirittura materia di scandalo, massime se susciterà in lui l’impressione di trovarsi di fronte ad una aprioristica glorificazione della nobiltà di sangue, e a maggior ragione se avrà scoperto che l’autore discende da una famiglia gentilizia, di Tramonti, Positano e Sicilia. In chi, tuttavia, si inoltrerà nella lettura delle pagine di questo volume (Elogio della Distinzione, Fondazione Thule Cultura, Palermo 2016), si andrà attenuando, se non scomparirà del tutto, ogni pregiudiziale diffidenza. D’altronde lo stesso sottotitolo, nell’ampiezza del suo arco semantico (Aristocrazia, Cavalleria, Nobiltà, Stile in tempo di barbarie), ammonisce contro ogni interpretazione riduttiva o arbitrariamente semplificatrice. Parimenti l’autore, Tommaso Romano, docente e Direttore del Dipartimento di Scienza della Biografia dell’ISCA di Roma, presidente della Fondazione Thule Cultura, direttore della rivista Spiritualità e Letteratura, saggista, estetologo, poeta originale, non si limita ad esporre compiutamente la propria concezione in merito, ma la suffraga efficacemente con un amplissimo florilegio di autori di ogni tempo e nazionalità, e di difforme estrazione ideologica, culturale e sociale.
Opportunamente, e significativamente, egli chiarisce il suo intento, cioè “indicare ciò che è considerato inattuale e scorretto rispetto ai tempi che viviamo, propriamente per sottolineare la sempre permanente concezione di Aristocrazia, Cavalleria, Nobiltà, intese come segno e consapevolezza di Stile, per una risvegliata coscienza d’affinamento e qualificazione del soggetto, di Distinzione appunto, rispetto a tutto ciò che è, invece, conforme, standardizzato, massificato nel singolo e nel processo abbrutente informe come drammaticamente avviene nella società del nostro tempo”; e precisa che recuperare tale concetto “non significa certo proporre il disprezzo degli altri o la separatezza aprioristica e irreale”, in quanto la Distinzione  “può essere perseguita da tutti, volendolo… riscoprendo l’unicità e l’irreversibilità che contraddistinguono da sempre ogni donna e uomo apparsi sulla terra, frutto di una Creazione e non di una ideologica e indimostrata “fede” evoluzionistica”. E’, dunque, evidenziare “ciò che distingue spiritualmente”  rispetto alla “babele della volgarità”, rivendicando il valore dell’educazione e dell’etica tradizionale, della cortesia e della disponibilità, “attitudine alla delicatezza e  rispetto per tutti a cominciare dall’aiuto possibile…per i più sfortunati, emarginati, deboli, anziani, indifesi”, nel segno dello spirito della più classica e nobile Cavalleria.
La Distinzione, intrinsecamente aristocratica, rivela di ognuno “lo stile, la raffinatezza, l’eleganza, la sobrietà, la finezza, il garbo” in una con la “discrezione, fermezza, signorilità e gentilezza…”; essa è necessaria per “distinguere ciò che è bene da ciò che è male”, al di là del relativismo e del minimalismo correnti, per “uscire dal coro”, indicare una via “per ritornare liberi, padroni di sé”, riconoscendo la selettività e il merito quali valori aristocratici, da conquistare mediante una vita coerente con l’altezza dei principi professati e improntata alla dignità e all’onore.
Sarebbe impresa ardua racchiudere nel breve giro di un articolo una sintesi esaustiva della fitta illustrazione di tali concetti, ricca di storia, etica, teologia, araldica, antropologia, e di innumerevoli riferimenti a grandi pensatori, artisti, mistici, sovrani, saggisti. E’, però, più agevole enuclearne alcuni spunti e rilievi particolarmente significativi e suasivi. Anzitutto il concetto di tradizione, ricondotto etimologicamente al latino tradere, ovvero trasmettere una “consegna verticale proveniente dall’alto, da Dio o dagli Dei”, o comunque da un Assoluto “che trascende e  lega ogni soggetto all’idea del cielo, del cosmo, del sacro, oltre che alla terra”, nell’attesa e speranza di vita eterna; o laicamente ritenuta “prolungamento vivificante” che dal passato “porta al presente e propone l’avvenire (concezione diffusa nei paesi anglosassoni con la figura del gentleman e che gli ricorda Prezzolini). E la sottolineatura della frattura determinata dalla fine del Medio Evo con l’accelerazione dell’egemonia della tecnica e della tecnocrazia a svantaggio della vocazione verso la trascendenza e il senso della dipendenza da Dio: un processo rivoluzionario in cui Liberismo, Marxismo, Positivismo e Storicismo sono “facce di una medesima medaglia sovvertitrice”. Al riguardo si propone l’ipotesi di una reversibilità di esso con la resistenza individuale e/o “il riunirsi comunitariamente in piccoli gruppi e famiglie“, comunque mantenendo “uno stile, un asse interiore” mediante l’autodisciplina e l’ascesi.
Ed ecco una necessaria precisazione: la reiezione delle “sole rivendicazioni dovute al tempo delle investiture e delle legittime nobilitazioni di sovrani e papi”, in quanto, in genere, non sono queste le élites a cui riferirsi: blasonati degni ve ne sono ancora, ma la nobiltà, in parte, non è – anche per l’alterigia e la supponenza -, all’altezza del titolo (come si rileva in vari Ordini e Confraternite cavalleresche). Ad essa fa riscontro la decisa e categorica asserzione per cui nobiltà oggi può essere solo “quella dello Spirito degno del passato o pronto a generare una novella Tradizione”, all’insegna del brocardo dantesco “fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e conoscenza”, della consapevolezza che l’aristocrazia autentica è “il connotato del meglio rispetto all’usuale, al volgare”, secondo l’insegnamento di Platone, e che il fine ultimo non va riposto nel contingente. Donde ad ognuno è possibile essere aristocratico, degno dell’antica nobiltà, vivendo senza superbia, nella perseveranza, nella temperanza, nella rettitudine, oltre che nel servizio dei più deboli, sia materialmente sia moralmente. E’ rilevante, peraltro, l’opportunità che i sovrani ancora in carica riconoscano e concedano onori  e meriti: comunque non sono “il denaro, la potenza sociale o le “cordate” amicali e/o clientelari” a dover decidere circa un riconoscimento di aristocrazia. Illuminanti sono i  richiami ai classici: a Seneca, con l’ammonimento a “sapersi ritirare in se stessi” ma anche a “saper alternare la solitudine e lo stare con gli altri”; come a Marco Aurelio (e a S.Agostino) circa la norma dell’agire che può solo essere ispirata all’universalità dei valori; e insieme la sentenza per cui “chi gode di un animo nobile non sopravviverà inebetito nel nichilismo e nella sciatteria”.
Inequivocabile e severa è la deplorazione del corrente “dogma del non discutibile”, della diffusa liceità della licenza assoluta e della tendenza verso il livellamento sessuale, l’azzeramento della polarizzazione fra i sessi; della progressiva scomparsa della “autorevole e necessaria figura del padre e di ogni principio di tradizionale convivenza”. E al contrario vivida l’esaltazione dell’onore, della fedeltà, quale virtù fondamentale, che trova un’efficace esemplificazione in figure eroiche come Salvo D’Acquisto, S.Massimiliano Kolbe, i martiri monarchici napoletani di via Medina nel 1946, Jan Palach, Paolo Borsellino, Don Puglisi, “aristocratici cavalieri” del  nostro tempo. Particolarmente opportuno, poi, il richiamo a Franz Ebhardt, autore ottocentesco de L’arte di vivere, a sostegno del giudizio secondo cui la propria casa è oggi “più che mai da considerare come un luogo necessario di elezione, uno spazio di ammutinamento rispetto alla volgarità montante, irriguardosa, livellata e servile del mondo circostante”: una dimora che può tuttavia aprirsi accogliendo “pochi e scelti interlocutori per goethiane affinità elettive”, e di cui va curata l’armonia, la bellezza nella custodia (e nel rinnovamento) di memorie, affetti, ed eventuali collezioni, alla luce dell’affermazione di Borges, per il quale dureranno più in là oblio le cose, pure le cose minime ci cui discorre Pessoa, e nella scia di Vitruvio e Plinio il Vecchio: una casa che in un’epoca di “diaspora spirituale”diviene un rifugio all’inclemenza del tempo, come scriveva Gómez Dávila.
Considerazioni, queste, a cui si affianca la deplorazione della profanazione dei monumenti o dell’indifferenza di fronte ad essi, a cui fa riscontro il riconoscimento della possibilità di “costruire dimore, borghi e cattedrali” (ne è uno straordinario esempio Gaudì) e di “restaurare”, purificare, intanto, il nostro paesaggio interiore con l’arte, la cultura, senza dimenticare il buongusto, la convivialità domestica, magari anche scegliendo la campagna con le sue risorse e bellezze. Opportuno, poi, il ricordo dei precetti contemplati dal Codice cavalleresco, che si tramanda da secoli: “Presterai fede in ciò che insegna la Chiesa; Rispetterai i deboli e ti costituirai loro difensore; Amerai il paese in cui sei nato; Non indietreggerai mai davanti al nemico; Combatterai gli infedeli senza tregua e pietà… Non mentirai e terrai fede alla parola data; Sarai sempre il campione del bene contro l’ingiustizia e il male”. Donde il paradosso di quanti rivendicano “titoli e onori del passato promanati da autorità cristiane” e contemporaneamente si professano appartenenti ad altre fedi o addirittura agnostici o panteisti. E infine una vena nostalgica pervade la costatazione dell’ improbabilità della restaurazione di “troni e altari, corone e tiare” a meno di un intervento soprannaturale. Perfettamente in chiave con l’afflato religioso del discorso la conclusione, con l’esortazione ai “cavalieri erranti alla ricerca del Graal”, perché preghino e avanzino “in prossimità d’incontro con i loro pari” per meritare l’Eterno incontro con Dio e riconquistare, con purezza di cuore e limpidezza di sguardo, “la Gerusalemme celeste”.
Di queste pagine mi pare denominatore comune un illuminato conservatorismo che, pur potendo ispirare o condizionare opzioni politiche, non configura un disegno politico, e quindi, sia per la prevalente angolazione etica sia per la dimensione élitaria, non è tale da turbare i sonni dei maggiorenti del nostro panorama partitico. Al fervore e all’impegno intellettuale di questa lucida disamina segue un centinaio di pagine di antologia, popolate, in ordine alfabetico, da autori di epoche, nazionalità, lingue diverse; antichi, medievali, moderni ed anche contemporanei: poeti, filosofi, Papi, Santi, moralisti, Sovrani, storici, politici, statisti, mistici, romanzieri, musicisti, giornalisti. Sono brevi sentenze, aforismi, sobri brani o ampie dissertazioni. Si va, così, dalle pronunce incisive di Aristotele (“Chi è degno di grandi cose, è uomo nobile”), di Confucio, di Giovenale, di Dante (“E’ nobilitade ovunque è virtude, e non virtude ovunque è nobilitade”), di Carlyle (“Tra gli uomini c’è una naturale aristocrazia i cui fondatori sono la virtù e il talento”), di Baldassarre Castiglione (teorizzatore della “sprezzatura”), di Tommaso Campanella, di Francesco I Re delle Due Sicilie (“I contrassegni di onore e di distinzione sono il più potente eccitamento alle virtuose e lodevoli azioni”), di Fausto Gianfranceschi (“La confraternita degli spiriti nobili esiste”), di Salvator Gotta (“L’anima a Dio, la vita al Re, il cuore alle Donne, l’Onore a me…”), di Hirohito Imperatore del Giapone, di Jean Rostand (“Non c’è nobiltà senza generosità…”), di Marcello Veneziani, di Stefano Zecchi; alle articolate disamine di Louis de Bonald, di Plinio Corrêa de Oliveira, di Meister Eckhart, di Romano Guardini, di José Ortega y Gasset, di Régine Pernoud, di Pio XII, di Gustave  Thibon, di Diego de Vargas Machuca. E tra i due poli, numerosi brevi pensieri, come quello di Maria Patrizia Allotta, Nicolas Boileau. Giovanni Botero, Franco Cardini, Benedetto Croce, San Francesco di Sales, Vincenzo Gioberti, Guido Guinizelli, Emmanuel Lévinas, Joseph de Maistre, Gennaro Malgieri, Jean de Meun, Alfredo Oriani, Riccardo Scarpa, Arthur Schopenhauer, Seneca, San Tommaso d’Aquino, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Gian Battista Vico.
Diverse voci, queste, che alimentano la mirabile armonia di questo suggestivo panorama. Se, infatti, molte sottolineano la necessità imprescindibile della virtù, altre insistono sulla genesi religiosa della nobiltà; qualcuna pone l’accento sul valore dell’ereditarietà, qualche altra sulla generosità e, in genere, “sulla differenziazione del comportamento e dell’interiorità, della qualità e del merito”; c’è chi privilegia l’aristocrazia del pensiero e  della cultura, mentre deplora lo scadimento etico dell’aristocrazia di sangue; chi si sofferma ad additare i limiti dello spirito borghese e l’uso distorto degli “immortali principi dell’ ’89”; chi auspica la formazione di una nuova aristocrazia nella scia dello spirito della cavalleria. Voci, dunque, diverse ma sostanzialmente concordi sui processi dissolutivi, “perniciosi aspetti della secolarizzazione e della tecnolatria”; e quindi nel rivendicare l’esigenza di esorcizzare l’odierna barbarie, massificatrice e ofelimitarista.
Fanno degna corona alle due sezioni precedenti del libro le raffinate pagine del Congedo al Café de Maistre, che si ispirano ai due aristocratici savoiardi, alfieri della tradizione, Joseph e Xavier de Maistre; e quelle del saggio, “di cristallina chiarezza”, dI Don Amadeo-Martín Rey y Cabieses Tres conceptos de Excelencia: Nobleza, Caballería, Aristocracia: un testo di cui Tommaso Romano evidenzia “lo stile, il rigore storico e dottrinale, l’uso accorto delle fonti, nonché il panoramico diorama organicamente tracciato dallo scrittore che, incardinato a partire giustamente dalla Tradizione spagnola, si arricchisce con validi approfondimenti indicati anche in quelle di varie altre nazionalità e culture, con rilievo riguardo pure alla realtà storica italiana…”.
Un saggio che si conclude additando gli elementi fondanti della “mejor aristocrazia” nel “respeto  a la palabra data”, nella “bontad y la generosidad, la valentia y el coraje, la sinceridad y el respeto a la verdad” congiunti alla “modestia y umildad de corazón”. Una conclusione che mi pare atta a fugare ogni diffidenza (quasi un sentore di egocentrismo o di superbia o di scarsa solidarietà  o di mera galanteria) o incomprensione circa l’intento di questo bel libro; che può, ovviamente, non piacere ai conformisti o ai dissacratori della tradizione, ai demagoghi, ma indubbiamente interpreta un’istanza spesso dissimulata ma particolarmente avvertita dalle persone restìe ad unóiformarsi alla decadenza etica corrente. Un libro coraggioso, certamente, nel vigore della sua denuncia e nel fervore (non acritico) della sua rivendicazione della tradizione. Donde il “panormita inattuale” (come si definisce l’autore) appare più che mai attuale, nella luce dell’esigenza di esaltare ciò che leva l’uomo al disopra della palude della grossolanità, del conformismo, della barbarie. 

sabato 11 marzo 2017

Tommaso Romano, "Elogio della Distinzione" (Ed. Thule)

di Alberto Maira

Un massificante egualitarismo che ha omologato l’esistenza degli uomini travolgendo la vita di interi popoli con un appiattimento soffocante, sposo e figlio insieme,  di un relativismo dalle fosche tinte ciniche e annichilenti, ha reso irrespirabile e invivibile il clima del nostro mondo, delle nostre città, dalle megalopoli ai villaggi apparentemente più sperduti ma ormai raggiunti dal rullo compressore di dinamiche massmediatiche, che ti inseguono ovunque, pronte a massacrare la ricchezza di ogni identità e gli spazi di ogni libertà concreta.
Tommaso Romano è un educatore e uno scrittore palermitano, che ha fatto della propria esistenza sin da piccolo, un soldato al servizio di valori non negoziabili, di battaglie difficili ma di alto profilo. E la non negoziabilità dei valori ai quali ha dedicato e continua a dedicare ogni giorno della sua vita da vero e proprio “milite” non sta nel partito preso di ideali frutto di una scelta ideologica partigiana ma dalla adesione a quella “verità delle cose” senza la quale l’ esistenza umana diviene non-senso e disperazione. E dolore, disperazione e distruzione sono il volto trascinato e trascurato di parte considerevole dell’umanità contemporanea. L’assalto alla “verità delle cose”, per usare un termine del filosofo Josef Pieper, si è rivelato un assalto all’amore di Dio per l’uomo con  conseguenti diabolici risultati della costruzione di un mondo senza Dio quindi senza pace, senza Dio quindi senza gioia, senza Dio quindi privo di significati.
In Elogio della Distinzione, l’autore, ci offre itinerari di possibile fuoriuscita  dal terreno melmoso della piattezza e del vuoto valoriale. Indicandoci non il proclamare una insignificante “distinzione per la distinzione”, per il puro gusto dell’essere fuori dal coro – che comunque è tra l’altro stonato – ma per essere gli incarnatori di un vissuto che risponda alla nostra natura di creature di quel Re dell’Universo che  ha iscritto nel nostro cuore un compito che ha un fine ultimo comune e itinerari per conseguirlo legati alla unicità e irripetibilità di ognuno di noi.  Sì, uguali ma unici e irripetibili. Dove l’essere uguali non è mai egualitarismo. E dove la unicità e irripetibilità non diviene mai individualismo.
Per aiutarci a meditare tutto ciò e altro, Tommaso Romano offre un ricercatissimo florilegio di autori di tempi, luoghi, condizioni, tratti, scuole, temperamenti ed anche prospettive diversi. Ma che, per gli aforismi e le riflessioni nel volume ripresi, offrono suggestioni utili allo scopo, che è quello, di ri-creare    “cultura, arte e ambienti” che favoriscano la rinascita di un mondo normale e vivibile,  alternativo a quello che è frutto della ribellione delle passioni più disordinate.
Nel testo si utilizzano decine e decine di citazioni molto significative e utili di autori antichi e antichissimi, da Aristotele ad Ariosto e Tasso, da Dante a Vico, così come di maestri di vita che i lettori, che speriamo siano tanti, avranno magari anche personalmente conosciuto come Attilio Mordini, Regine Pernoud, Gustave Thibon o  Giovanni Cantoni .
Già il professor Plinio Correa de Oliveira, nel suo magistrale saggio “Rivoluzione e Contro-Rivoluzione”, che non dobbiamo mai smettere di proporre come lettura della crisi del mondo moderno e come indicazione di itinerario di uscita da questa crisi, aveva parlato di “ complessità e l'ampiezza del processo rivoluzionario nelle zone più profonde delle anime, e pertanto della mentalità dei popoli” dove “è più facile indicare tutta l'importanza della cultura, delle arti e degli ambienti” nella marcia dei processi disgregativi. L’opera del Romano offre strumenti per restaurare rinnovati ambiti ove far rinascere e crescere, una nuova classe di nobili spiriti che vivifichino le famiglie sempre più disorientate, la cultura sempre più mercificata, le nazioni sempre più prive di punti di riferimento autentici. Quella che viene proposta è in definitiva la rinascita di focolai di saggezza.  
Il florilegio offerto diviene cosi un contributo non di puro esercizio letterario ma uno strumento per alimentare lo spirito, un aiuto a sopravvivere, senza abbattimenti e rassegnazioni ingiustificate, a rilanciarsi in forme rinnovate,  al servizio di una nuova evangelizzazione e di rinnovato slancio missionario che coniughi lo spirito contemplativo e  quello attivo, senza ripiegamenti intimistici e folcloristici, senza risibili orpelli e anacronistici estetismi.

mercoledì 8 marzo 2017

El Escudo de Armas de Lima, la ciudad de los Reyes

di  Amadeo-Martín Rey y Cabieses


 La comunicación que presenté en las III Jornadas de Heráldica y Vexilología Municipal la dediqué al uso de la corona en la heráldica municipal. En aquel momento me quedé con la idea y el deseo de profundizar en el estudio de un escudo que me era especialmente caro, el de la Ciudad de los Reyes, es decir, el de la actual Lima, que ostenta de modo claro coronas en sus armas. Y las ostenta –en alguno de sus modelos- por partida quíntuple aunque a veces las hayan dibujado por partida cuádruple o triple, como veremos más adelante.