lunedì 21 novembre 2016

Tommaso Romano, "Elogio della Distinzione" (Ed. Thule)

LA DISTINZIONE COME NOBILTÀ NEI CAVALIERI DELLO SPIRITO
di Giuseppe Bagnasco


  Dopo l’Elogio dell’ozio di Bertrand Russel e il più vetusto Elogio della pazzia di Erasmo da Rotterdam, tra i più rinomati e che si “distinguono” dai tanti, per gli argomenti similari trattati nel campo della disquisizione antroposociologica, ecco l’arrivo sul tavolo delle nostre “distrazioni”, quasi a completamento di una sorta di Trilogia, L’Elogio della Distinzione (Fondazione Thule Cultura – Palermo 2016) del filosofo Tommaso Romano. Non è un trattato ma un “manifesto”, una riflessione non confessionale, sullo stato e condizione contingente e spirituale a cui è pervenuta la società contemporanea del mondo che per semplificazione chiamiamo “occidentale”. Un manifesto, dicevamo, che si può leggere alla stregua di un manuale di regole educative, senza per questo assumere i connotati di una filippica sebbene a tratti appaia come significativa e volitiva “omelia”. Né poteva essere diversamente per l’argomento affrontato e che spazia per tutto l’arco della devianza nei comportamenti “tradizionali” dell’uomo odierno.

   Per potere scrutare a primo acchito il poderoso testo e carpirne le parti più salienti, visto che è composto da ben tre “corpi” relativi ad un saggio dell’Autore, un saggio dell’illustre Amadeo-Martin Rey y Cabieses e un ricco e unico Florilegio di Autori, ci viene in soccorso il sottotitolo: Aristocrazia, Cavalleria, Nobiltà, Stile in tempo di barbarie. Non c’è alcun dubbio nell’affermare che si tratti di una esplorazione storica e sociologica su ciò che questi “titoli” hanno rappresentato e che l’Autore  sottolinea con l’intercalare il testo di disegni riferiti a momenti d’azione della Cavalleria  d’un tempo con schiere cristiane affrontanti le saracene e la raffigurazione nell’antifrontespizio della sagoma idealizzata del Krak (fortezza crociata in Siria) dei Cavalieri Ospitalieri di Gerusalemme divenuti poi di Rodi, infine di Malta e oggi rappresentati dallo SMOM.
   Tommaso Romano, non nuovo nell’esposizione di “tesi teologali” sullo spirito, da buon cristiano di fede qual è, mette al servizio del dettato di Dio, la vestitura armata del distinto “Cavaliere dello Spirito”. E lo fa discettando sui temi sopraindicati, a cominciare dal concetto di Aristocrazia, distinguendo quella di spada da quella dello spirito.  L’aristocratico, nel composto della semantica greca di aristòs (eccellenza) e cratòs (potere di governo), delinea una persona che si governa da sé e per espansione, colui che si isola dalla folla. E per folla, come afferma l’Autore, s’intende quanti sono accomunati nella volgarità, rozzezza, dozzinalità e violenza del comportamento nelle parole come negli atti, fino ai modi. Tuttavia, sempre nel proseguo della ratio in Romano, l’isolarsi dalla realtà, l’eccessivo autocontrollo, compresa la mancanza di ironia, non consentono l’educazione alla nobiltà che, di contro, si consegue nella capacità del saper scegliere il confacente rapporto con il prossimo. L’aristocratico è pertanto la persona distinta, custode di quei valori che dovrebbero armare  i suddetti Cavalieri per conquistare “nelle steppe del nulla, la Gerusalemme Celeste. Il tutto”. Oggi che il “progressismo”, l’innaturale livellamento sessuale, l’omologazione alla massificazione, portano ai conseguenti disvalori, fra tutto questo declinare un posto privilegiato è riservato ad una virtù d’eccellenza: l’Onore.
   Ora, a prescindere dalle valutazioni sottolineate dallo storico Franco Cardini che lo conforma a dignità personale, reputazione e onorabilità  comportanti il diritto della persona al rispetto e alla stima, bisognerebbe qui aprire uno spaccato su questa virtù che, a parere non solo nostro, incardina tutte le qualità del “buon uomo”, del buon cristiano ma che non si riflette nel diverso homo bonus del poeta Marziale. Incominciamo, purtroppo, col dire che le culture della menzogna, dell’ipocrisia, hanno inferto una profonda e dolorosa ferita nel comportamento deontologico degli uomini e in particolare nel malinteso senso dell’onore soprattutto se riferito alla latina sacralità della parola data, pacta servanda sunt, come comprova, per mantenerla, il  sacrificio del console Marco Attilio Regolo. Pensiamo ad esempio a quanti giustificano un loro scomposto agire con un’alzata di spalle o con quel “Je m’en fous”, di recente pronunciato dal Presidente della Commissione Europea Juncker e che fa comprendere quale ingloriosa fine abbia fatto quel certo bon ton!. Ma la trasgressione del senso dell’onore ha antica data giacchè la ritroviamo, spulciando la mitologia greca o passi della Bibbia, nei racconti del “padre” Zeus che ricorreva al travestimento e finanche alla sostituzione di persona per sedurre con l’inganno le belle mortali o come nella vergognosa e subdola condotta di Re David quando mandò in guerra, in prima linea e quindi alla morte Uria, lo sposo della bella Betsabea che aveva sedotto e che comunque poi da vedova sposò. E ancora, non possiamo elencarli tutti, nel tradimento fatto da un certo Horatio Nelson nei confronti dell’Ammiraglio Caracciolo (la resa in cambio della vita) e che invece fece impiccare sulla murata della sua Victory contravvenendo come un volgare pirata alla parola data. Infine, ricorrendo alla Storia, ancora sull’onore tradito, quando Enrico IV di Francia pur di mantenere salda la sua corona abiurò alla sua fede protestante e abbracciò quella cattolica con un probabile e analogo “Je m’en fous” nel famoso “Parigi val bene una messa!”. Ma i dettati del codice d’onore hanno sempre governato, lungo il corso dei tempi, gli uomini giusti e probi e ciò sin dai codici cavallereschi del Medioevo giungendo per alcuni tratti, perfino a quelli non scritti dell’onorata società, uniformemente intesa in tutto il nostro Meridione e giunta, con l’emigrazione “imposta” dopo la sua piemontesizzazione, fino alla “frontiera” dell’Ovest americano. Erano codici che tutelavano l’onestà della donna, intoccabilità dei bambini, la parola data, con in aggiunta il divieto di sparare alle spalle o ad un uomo disarmato. Norme non scritte nella vita che, fino all’abolizione formale del feudalesimo, si conduceva nei feudi e che era regolata da un castaldo, un soprastante, un fattore che amministravano la giustizia “parallela” essendo i feudi luoghi spesso “inaccessibili” anche alle compagnie rurali dei governi del tempo. Nacque lì la vecchia “onorata società” da non confondere con la successiva malavita organizzata o coi “picciotti” di La Masa che furono, ma ancor prima in letteratura nei manzoniani “bravi” di Don Rodrigo o nei severi “tribunali” della setta panormita dei Beati Paoli di natoliana memoria, il loro capostipite. Era quest’ultima una “Confraternita” segreta, come afferma il Villabianca, di uomini valenti che perseguivano i valori della difesa dei deboli e della giustizia pur rimanendo nelle loro feroci sentenze ferventi religiosi e credenti in Dio e al Santo di Paola, a cui si richiamavano. A uomini di tal fatta, a questi “uomini d’onore”, si deve l’appellativo di “cristiano”. Ma torniamo all’Elogio della Distinzione e al tema della Ecosofia affrontato dal filosofo Romano nel riconsiderare il senso della abitazione in cui si vive.
   Al pari di Francesco Alberoni che nel novero della scienza della comunicazione include quella che avviene attraverso il vestire certi abiti dando a questi la facoltà di dare un messaggio su chi li indossa, così il Nostro attribuisce lo stesso significato all’arredamento e al gusto di disporlo in un certo modo nella dimora di una persona dalle qualità “aristocratiche”. E questo come proiezione della propria identità dedicando tra gli arredi anche uno spazio ai ritratti dei propri antenati a guisa dei Lari e dei Penati dei Latini. Completano, conclude Romano, la bellezza della dimora, non necessariamente un palazzo, il poter accudire l’eventuale giardino di casa o il curare il collezionismo al pari di un personale museo, considerando entrambi come manifestazioni secondarie del gusto del dimorante. Con questo fare si può contrastare, aggiunge l’Autore, il completamento dell’ecatombe che incalza e principalmente col formare, con persone che in ciò si riconoscono, una sorta di patriziato civico di pochi ma decisi “Cavalieri”. Titolo di nobiltà, ammonisce il Nostro, che non deve essere acquisito tramite sedicenti Istituti che l’elargiscono dietro compenso essendo insita la possibilità di poter incorrere così, in quel “Todos Caballeros” che l‘imperatore Carlo V concesse a certi postulanti sardi che lo reclamavano. Frase che oggi viene usata in tono dispregiativo annullando di fatto la distinzione o il prestigio dei pochi che lo meritano.
   Fatto salvo questo primo “tomo” che forma il “corpus iuris” principale dell’Elogio della Distinzione, essa incorpora altresì una poderosa antologia, un Florilegio di Autori che espongono le loro frasi, trattazioni, aforismi nel reticolo degli argomenti qui esposti, con particolare riguardo al significato di Aristocrazia. Pur tuttavia di questi Eccellenti non ci è possibile citare tutti i nomi dal momento che in dettaglio l’elenco supera le cento pagine. Fa da cornice a tanto disquisire, un prezioso saggio del nobile spagnolo Don Amadeo-Martin Rey y Cabieses, storico e critico nell’ambito araldico-cavalleresco della Classe aristocratica e della Tradizione iberica, che ne approfondisce lo studio, con un particolare riguardo a quello genealogico italiano. Il saggio dell’Illustre, Componente dell’Audizione Generale e Consigliere della Real Deputazione del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio nonché Membro Corrispondente del Collegio Araldico di Roma, risulta diviso in Nobleza, Aristocracia e Caballeria, speculari in qualche modo al sottotitolo dell’Elogio della Distinzione. Nella reflexion final l’Illustre raccomanda il rispetto della palabra dada, la bondad y la generosidad e la valentia y la humildada de corazòn perché solo la loro actuaciòn es la mejor aristocracia , cioè quella del poder de la bondad. 
   Alla termine di queste note, una riflessione, anche se non esaustiva, di quanto ci resta, speriamo in seguito non in briciole di memoria, della meritoria opera del “mosaicosmico” Magister. Senza scadere nella facile apologia di maniera, si resta “impressionati” da questo album di fotografie-commentario che, senza tema di supponenza, potremmo definire “De humanitate destructa”, giusto per parafrasare i commentari cesariani, nonchè coinvolti dall’afflato che traspare dalla malcelata angoscia con cui l’Autore esamina l’uomo sedotto e concupito dalla Tecnolatria dalla quale non si può distaccare senza il paventato pericolo di non apparire “politically correct”. Il richiamo risulta un accorato appello a quanti si avviano ciecamente verso l’abisso dell’anima trascinando con sé duemila anni di cammino e di acquisizione di una civiltà della quale restano testimoni ineguagliabili città uniche come Atene, Roma, Alessandria, Gerusalemme, Venezia, Pietroburgo. Un richiamo quindi per impedire a costoro di non finire aggrappati, in un rigurgito di ravvedimento, a quella “Zattera della Medusa” che tanto bene rappresenta la deriva di uomini disperati, il dipinto di Theodore Gèricault. A ben vedere, l’Elogio della Distinzione costituisce una sorta di testamento spirituale del Cavaliere dello Spirito Tommaso Romano, appartenente purtroppo all’esausto filone di un certo nuovo romanticismo, non letterario ma spirituale nel senso che si richiama al Passato vestendo la parola di “Redentore” di una certa cultura. Un testamento spirituale, dicevamo, che si coglie in questo Discepolo della Cultura che quale Pellegrino del Cosmo chiude questo pregevole lavoro, con fare quasi colloquiale, con un congedo, certamente non occasionale. Egli infatti inserisce al confine dei “tomi” trattati, un testo dal significativo titolo “Congedo al cafè de Maistre”. E volutamente, prendendone a prestito il nome, sceglie per siffatto “eremo senza terra”, l’immaginario ricovero in un Caffè, posto di fronte il mare nel Foro Borbonico (oggi Italico), dove in una atmosfera pregnante di “art nouveau”, si ritrova a scrivere, tra un caffè e il centellinare di un Porto, avvolto nell’aria da una coinvolgente musica mozartiana, una lettera, quasi una immaginaria “epistola apostolica” rivolta ad una civiltà al tramonto. In questa, da buon Anacoreta occulto, chiama alla resistenza con quel pudore, riserbo, dignità,  sensi comuni ai pochi frequentatori di quel Caffè, anche se ritiene che tutto è perduto, riprendendo in ciò la frase di Francesco Primo di Francia nell’infausto giorno di Pavia, nel messaggio alla propria madre, “Tutto è perduto fuorchè l’onore”. Ed è nel nome di queste virtù e dell’onore che il Romano, come in un battesimo liturgico, rinuncia al satana della egemonia tecnologica e alla dittatura del pensiero unico nello stesso modo in cui rinuncia agli applausi dei falsi adulatori, esprimendo come unica aspirazione quella di essere lasciato in pace dentro un immaginario Chiostro. E’ nel contesto di queste note che il Filosofo appare nelle vesti più dimesse dell’ordinario umano, svelando una sorta di stanchezza per l’impari lotta contro questo mondo destinato al declino, riponendo però l’ultima speranza nel salvataggio ad opera della divina Provvidenza. Si chiude così questa antologia, questo breviario-manuale di concetti, richiami, esortazioni che, iniziati con la Distinzione, anima della nobiltà del cuore e dello spirito, giungono al termine di questo excursus, alla malinconia nel corpo senza tuttavia coinvolgerne l’anima.

martedì 15 novembre 2016

LOUIS DE WOHL, La lancia di Longino. La storia straordinaria di un uomo comune, Rizzoli, Milano 2016, p. 472, € 13

di Gianandrea de Antonellis

La casa editrice Rizzoli, nella storica collana Bur, sta riproponendo i romanzi storici, di argomento religiosi, scritti da Louis de Wohl (1903-1961). Quelle dello scrittore tedesco (ma naturalizzato inglese) sono biografie di uomini illustri (L’ultimo crociato, su don Giovanni d’Austria, l’eroe di Lepanto), di filosofi (La liberazione del gigante, su San Tommaso – il “gigante” è Aristotele, liberato, cioè cristianizzato dall’Aquinate), di santi (La mia natura è il fuoco su Santa Caterina, La città di Dio su San Benedetto, La gloriosa follia su San Paolo, Il gioioso mendicante su San Francesco), tutti personaggi dalla biografia ben nota. In questo caso, invece, l’autore si confronta con un soggetto quasi “mitologico”: il centurione che assisté alla crocifissione di Nostro Signore ed affondò la lancia nel Suo costato per constatarne la morte. Di lui, storicamente, sappiamo ben poco: ci è stato tramandato solo il nome, Cassio Longino, e nulla più. Quasi tutto il resto di quanto ci è noto proviene dalla duecentesca Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, che è alla base dell’agiografia corrente e la quale, peraltro, dedica al Santo (ricordato dalla Chiesa il 16 ottobre) solo poche righe, quasi tutte incentrate sul suo martirio, avvenuto alla fine di ventotto anni di vita monastica intrapresa dopo la conversione sul Golgota e la decisione di lasciare l’esercito.
Louis de Wohl – che peraltro decide di incentrare il suo romanzo sulla vita di Longino precedente all’incontro con Cristo – parte quindi da questi scarni spunti per costruire quello che, pur essendo rispettoso dei tratti essenziali dei principali personaggi storici presenti in primo piano (a partire da Ponzio Pilato, naturalmente, e da sua moglie Claudia Procula fino ad Erode e ai membri del sinedrio) e sullo sfondo (Tiberio e il suo intimo ed infido consigliere Seiano), è un lavoro in massima parte di fantasia. Forse proprio per questo, per non essere costretto da troppi “paletti”, riesce a tessere una trama estremamente coinvolgente, che affascina il lettore fin dalle prime pagine e che s’incastra perfettamente nella narrazione dei Vangeli.
Così seguiamo le vicende di un giovane dal brillante avvenire militare e sociale (i Longini erano una conosciuta famiglia dell’aristocrazia romana) che per salvare il padre dalla prigione per debiti decide di offrirsi come schiavo, rinunciando a tutto per pagare gli esosi creditori. Purtroppo il vecchio sarà presto ucciso dal suo persecutore e Cassio vivrà il resto della propria esistenza con l’impressione dell’inutilità del suo gesto e, quindi, con l’unico scopo di riuscire a vendicarsi dei nemici della sua famiglia. Ma su di lui esiste un disegno divino che lo porterà alla redenzione: l’atto di amore nei confronti del padre, lungi dall’essere un sacrificio senza senso – degno di una vita altrettanto senza senso, in cui l’elemento religioso è una pura formalità fatta di sacrifici a divinità che palesemente non esistono – è invece un momento fondamentale per il suo cambiamento esistenziale.



Con una “leggerezza” ante litteram alla Calvino (nel senso di Italo, non di Giovanni!), l’autore fa passare tra le sue pagine alcuni fondamentali insegnamento evangelici che fanno del romanzo un’opera educativa che non rischia mai, però, di essere didascalica (tra parentesi, va notato come questo sia un errore frequente e dal quale poche opere narrative riescono ad essere esenti: tra queste, in Italia, i capolavori di Carlo Alianello). Così seguiamo il protagonista in un percorso di crescita al termine del quale, dopo essersi liberato dalla schiavitù fisica, si libererà da quella morale e religiosa, abbracciando con piena coscienza la vera Fede.

lunedì 14 novembre 2016

La lotta di una vita per una res publica christiana. C. F. D’Agostino

di don Samuele Cecotti

Il 12 maggio 1906 nasceva quello che meno di quarant’anni dopo sarebbe divenuto il protagonista dell’unico tentativo integralmente cattolico di ripensare il Regno d’Italia dopo la caduta del regime mussoliniano. Ricordare Carlo Francesco D’Agostino a 110 anni dalla nascita è, non solo doveroso tributo ad un grande cattolico italiano, ma anche occasione offertaci per pensare la politica secondo ragione e nella luce che ci viene da Cristo. L’avvocato D’Agostino fu un instancabile apostolo della Regalità sociale di Cristo, un tenace combattente (la buona battaglia) per la res publica christiana, tutto si votò perché si facesse storia d’Italia il motto paolino assunto da san Pio X e che il nostro periodico ha eletto a testata: Instaurare omnia in Christo!
Proprio per questo non poté essere fascista quando lo era l’Italia intera, non poté essere democristiano quando la Chiesa stessa parve esserlo, non poté che combattere l’errore liberal-democratico con lo stesso zelo con cui combatté la follia socialcomunista. Fu uomo libero, della libertà dei figli di Dio, libero proprio perché fedele a Cristo tutto intero, fu intransigentemente cattolico in un tempo nel quale la adamantina fedeltà alla Verità fu sempre meno stimata e così molte volte combatté solo (o con pochi) e una congiura del silenzio allestita a suo danno ne segnò i cinquant’anni di vita pubblica. Morì novantatreenne nella sua villa di Osnago ancora impegnato nella battaglia di sempre, fedele a Cristo Re sino all’ultimo istante di vita terrena.
L’infanzia e prima giovinezza di Carlo Francesco, pur tragicamente segnate dalla morte della madre, hanno i tratti della vita aristocratica di primo ‘900; appartenente ad una nobile e ricca famiglia napoletana da generazioni dedita al servizio dello Stato, ricevette educazione cattolica e ottima istruzione. Frequenta il Liceo Tasso di Roma completato il quale si avvia agli studi giuridici secondo tradizione di famiglia (il padre fu presidente della IV sezione del Consiglio di Stato). Si laureerà in Giurisprudenza a La Sapienza nel 1927 con una tesi critica nei riguardi del normativismo giuridico, tesi nella quale sosteneva il dovere per gli Stati di conformarsi al diritto divino.
Gli anni universitari sono momento di serio approfondimento della propria vita di fede grazie alla figura di don Massimo Massimi, futuro Cardinale, e alla Congregazione eucaristica di San Claudio fondata dal Massimi e che D’Agostino frequenta regolarmente. Nel 1927, conseguita la Laurea, si trasferisce a Milano e si avvia alla carriera forense. Nel 1930 sposa Paola Ambrosini Spinella dalla quale avrà quattro figli.
Gli anni milanesi vedono Carlo Francesco D’Agostino protagonista tra il laicato cattolico più sensibile e attivo, nell’Azione Cattolica, nel Segretariato Buona Stampa, nelle Conferenze della San Vincenzo, come giornalista al quotidiano “L’Italia”.
Ancora studente universitario aveva deplorato, come cattolico, la partecipazione del PPI al primo governo Mussolini. Da giovane giurista aveva consolidato il suo giudizio negativo circa il fascismo e la liberal-democrazia che l’aveva preceduto. Mai Carlo Francesco D’Agostino si iscrisse al PNF, neppure quando gli fu caldamente consigliato con allettamento in danaro considerevole. Nel 1939 si trasferisce con la famiglia a Roma, gli anni dal ’39 al ’43 lo vedono impegnato in un serio studio della Dottrina sociale della Chiesa ricercando nei documenti del Magistero sociale dei Papi le ragioni e i principi d’una politica autenticamente cristiana.
Il 1943 è anno capitale non solo per la storia novecentesca d’Italia ma anche per la storia personale del D’Agostino. Alla caduta di Mussolini il Nostro riconosce come proprio dovere un impegno politico per il bene del Paese. Confortato dal positivo parere del cardinale Massimi, di monsignor Sironi e del suo direttore spirituale padre Malatesta, Carlo Francesco D’Agostino si avvia ad un diretto impegno politico. Alcuni incontri con uomini dell’area popolare e della costituenda Democrazia Cristiana, tra cui anche con lo stesso De Gasperi, e la lettura di alcuni opuscoli clandestini di presentazione della DC lo convincono della impossibilità di riconoscere nella Democrazia Cristiana le ragioni della politica cattolica. Anzi D’Agostino giunge alla dolorosa convinzione che la DC sia il primo e principale nemico della vera politica cattolica perché forza coerente con i principi della Rivoluzione francese benché nominalmente “cristiana”.
Nell’autunno del 1943 nasce così il Centro Politico Italiano per iniziativa del Nostro, del generale Paolo Piella e del nobile giurista Giovanni Silvestrelli. Il CPI nasce in una Roma ancora occupata; dunque clandestinamente, come unione di laici cattolici desiderosi di contribuire alla rinascita dell’Italia, alla ricostruzione del Regno sabaudo quale res publica christiana. Le adesioni al progetto del CPI furono significative e autorevoli, l’Indirizzo programmatico fu approvato da importanti uomini di Chiesa e dal collegio dei gesuiti di Civiltà Cattolica. Pio XII impartì al CPI la propria benedizione.
Il Luogotenente generale del Regno Umberto di Savoia, una volta liberata Roma, più volte incontrò il Nostro per consultazioni e vi fu il tempo in cui l’ipotesi di un governo presieduto da D’Agostino fu seriamente considerata dal Quirinale. La storia nazionale, pesantemente condizionata dalla presenza militare anglo-americana, prese altra direzione: quella della liberal-democrazia incarnata dalla DC e dal D’Agostino combattuta.
Il CPI, sotto la guida di D’Agostino, si presentò alle elezioni del ’46 per l’Assemblea costituente. Concorse poi a diverse elezioni politiche e amministrative sino al 1967, spesso in alleanza con i monarchici o promuovendo aggregazioni di indipendenti cattolici. Elettoralmente la storia del CPI e, dunque, l’impegno politico di D’Agostino, che con il CPI si identifica, non si colloca certo tra le storie di vittoria, è piuttosto la testimonianza tenace di un impegno morale anche contro le ragioni umane del mondano successo. Carlo Francesco D’Agostino sino all’ultimo giorno della vita destinò tempo, energie e risorse economiche senza risparmio alla causa dell’Italia cattolica, al CPI, all’organo di stampa dello stesso, “L’Alleanza Italiana” e alla omonima casa editrice.
Dopo gli anni eroici della fondazione del CPI e il “rischio” occorso nel 1944 di essere nominato Presidente del Consiglio dei Ministri, il peso politico del D’Agostino si fece sempre più marginale sino alla irrilevanza. Il mondo politico così detto cattolico e la DC inflissero al Nostro la più vigliacca delle ingiurie, il silenzio, dopo averne deriso le idee.
Come si è scritto sopra, D’Agostino appena ebbe contezza del progetto politico-ideologico su cui nasceva la DC ne rilevò la natura liberal-democratica e, dunque, l’inconciliabilità con la Dottrina sociale cattolica. Sin dal ’43 D’Agostino si oppose alla soluzione democratico cristiana per la questione dell’impegno politico dei cattolici. L’opposizione del Nostro non fu per gusto o sensibilità, non fu neppure per diversa valutazione politica prudenziale in materia opinabile, fu opposizione moralmente dovuta perché motivata dalla constatazione della contraddizione esistente tra l’ideologia e il programma della DC e l’insegnamento del Magistero in materia sociopolitica. Questa opposizione alla DC, tanto risoluta quanto tale riconosciuta al punto che il Nostro si guadagnò l’appellativo di anti-De Gasperi, fu occasione per un progressivo approfondimento delle ragioni cattoliche che militano contro l’opzione liberale e democraticista. D’Agostino, nei lunghi decenni di impegno intellettuale, scrisse molto sull’errore demoliberale e dunque sull’errore democristiano analizzando non solo il partito di De Gasperi ma allargando il campo visuale ai precedenti del PPI sturziano, di Murri e, ugualmente, agli sviluppi della DC sino agli anni ’90.
La DC, e prima il PPI, assume a quadro il paradigma dello Stato liberale e della democrazia moderna concependo l’impegno cristiano in politica come intensivo rispetto ad un ideale (quello liberal-democratico) giudicato evangelico. La politica nuova nata dall’89 francese e dalla Rivoluzione americana sarebbe l’inveramento di un germe cristiano e dunque compito del cristiano in politica sarebbe proprio lo spendersi per portare a compimento la libertà liberale e la democrazia. Di fronte a simile orizzonte a D’Agostino non restò che constatarne la completa eversione da quanto insegnato dal Magistero anti-moderno dei Papi e conseguentemente opporvisi.
D’Agostino giudicò De Gasperi come un vero e proprio eresiarca, contro di lui scrisse diversi articoli e opuscoli, tra tutti il più noto reca il titolo significativo di “Perché i democristiani non sono cattolici / 1°. Perché Degasperi non fu un cattolico”, testo che contiene un lungo e dettagliato elenco di accuse contro De Gasperi tese a rilevare la natura non cattolica e non morale, anzi anti-cattolica e immorale, dell’operato politico del fondatore della DC. Nel 1946 presentò pure due denunzie al Sant’Uffizio contro gli errori di De Gasperi e della DC. A confutazione degli errori democristiani D’Agostino dedicò innumerevoli scritti a partire dal 1945 quando editò “La Democrazia Cristiana: ecco il nemico!”. Ma certamente il testo più celebre nella vasta produzione antidemocristiana del D’Agostino è il lungo saggio “L’«illusione» democristiana”, risposta del Nostro alla Lettera pastorale del Patriarca di Venezia, cardinale Giovanni Adeodato Piazza, del 1948.
L’impegno politico di D’Agostino nasce come impegno morale, come risposta ad un riconosciuto dovere verso la Patria. Ed è impegno che, proprio perché eticamente compreso (così come scienza etica è riconosciuta la politica), si pone nell’orizzonte della legittimità presupponendo un ordine di giustizia trascendente l’ordinamento positivo e tale da misurare la legge e l’agire politico. È dunque capitale per D’Agostino la questione della legittimità dello Stato (italiano), dell’ordinamento positivo, del regime di governo. In questo contesto culturale, espressione della migliore tradizione politica cattolica (della lezione magisteriale come di quella tomista capace di portare a sintesi la classicità con la novità cristiana), il Nostro colloca le proprie riflessioni sul Risorgimento, sulla Questione Romana, sul regime liberale e liberal-democratico dello Stato sabaudo, sul regime fascista, sui Patti Lateranensi, sulla Repubblica Sociale Italiana, sulla Resistenza, sul referendum istituzionale, sul nuovo regime repubblicano, sulla Costituente e sulla Costituzione.
La soluzione che D’Agostino, in diversi suoi scritti sempre in luminosa coerenza di pensiero, dà al problema della legittimità dello Stato italiano è rigorosa, strettamente conforme alla Dottrina cattolica sul tema, coraggiosa e originale a un tempo. D’Agostino fa proprio il giudizio dell’intransigentismo cattolico circa la così detta unità d’Italia, giudizio che poi è quello della Sede Apostolica (e in questo si allontana dalla tesi del Petitto), ritenendo illegittime le occupazioni piemontesi degli Stati pre-unitari, privi di alcun valore i plebisciti per l’annessione, dunque semplicemente una usurpazione a danno delle legittime dinastie. Ancor più grave la invasione dello Stato pontificio e della stessa Città Eterna perché, alle ragioni comuni che giustificano il giudizio di illegittimità, si sommano ragioni di diritto divino attinenti il Papato nel suo originario diritto all’indipendenza (anche temporale su base territoriale) da ogni altro potere.D’Agostino considera anche la valenza ideologica del Risorgimento classificandolo come vera e propria rivoluzione, come affermazione in Italia del liberalismo, dell’eredità politica del protestantesimo, di una concezione neo-pagana della nazione. E tuttavia, a questa indubbia impronta anti-cattolica dello Stato unitario, si oppone tacitamente quell’articolo 1 dello Statuto albertino che il Nostro saprà valorizzare nella polemica contro la Costituzione repubblicana. Così per il Nostro la statualità italiana, sino alla stipula dei Patti Lateranensi, deve considerarsi regime tirannico (in senso tecnico) tanto ex defectu tituli quanto ex parte exercitii. Il Regno d’Italia è realtà de facto ma non de iure, i re sabaudi sono esercenti di fatto di una giurisdizione che non gli appartiene, sono usurpatori e tiranni.
Per D’Agostino questa situazione di illegittimità dello Stato italiano sarà sanata dai Patti stipulati tra il Regno d’Italia e la Santa Sede nel 1929 con i quali il Vicario di Cristo riconosce lo Stato italiano, il Regno sabaudo si impegna formalmente a essere Stato cattolico dando piena attuazione all’articolo 1 dello Statuto, trova soluzione la Questione Romana. Per D’Agostino, dunque, il primo re legittimo d’Italia è Vittorio Emanuele III dal momento della firma dei Patti del Laterano. Resta ilvulnus delle legittime dinastie italiche pre-unitarie usurpate, D’Agostino riterrà sanata tale illegittimità pendente sul Regno d’Italia in quanto il riconoscimento concesso dalla Santa Sede vincolerebbe pure le Case regnanti cattoliche che al Papa sono soggette. Non mancherà, il Nostro, di rilevare come l’impegno assunto pattiziamente dal Regno d’Italia, e già tale statutariamente, d’essere Stato cattolico mai ebbe reale piena attuazione. Così che si può parlare d’una legittimitàvirtuale dello Stato italiano mai pienamente passata all’atto quanto all’esercizio.
Le stesse ragioni che guidano il giudizio del D’Agostino circa la legittimità dello Stato unitario italiano ne sostanziano il giudizio circa la Repubblica Sociale Italiana ritenuta statualità meramente di fatto come usurpazione (da parte del Duce) della giurisdizione propria di re Vittorio Emanuele III e regime tirannico nel suo essere fondato sull’ideologia fascista e non sulla verità cattolica.
Gli anni dal ’46 al ’48 pongono nuova e drammatica questione di legittimità che D’Agostino affronta magistralmente da par suo. Per prima cosa contesta la legittimità dei decreti luogotenenziali 151/1944 e 98/1946 con i quali il principe Umberto di Savoia stabiliva di sottoporre la giurisdizione regia alla volontà popolare. Per D’Agostino il referendumistituzionale svoltosi il 2 giugno 1946 (indetto con decreto luogotenenziale 98/1946) non fu illegale ma fu tuttavia illegittimo come illegittimi i due decreti di cui sopra. Illegittimi perché contrari al bene comune, al diritto naturale, perché la potestà regia, in quanto onore morale, non può essere legittimamente abbandonata, da chi ne sia investito, se non in casi eccezionali e unicamente trasferendo l’autorità a chi giudicato più capace nel servire al bene comune. Tanto alla emanazione dei due decreti quanto alla votazione referendaria il regime che avrebbe, in ipotesi, preso il posto della monarchia sabauda era indeterminato; dunque era semplicemente impossibile per Umberto acconsentire alla cessione della regalità. Inoltre, in quanto implicanti la sovranità popolare, decreti e relativo referendum contrastano direttamente con il diritto naturale e la Dottrina cattolica sulla potestà politica.
L’esito poi del referendum, pesantemente viziato da brogli e contestato, non fu mai riconosciuto da Umberto II. Prima che la Suprema Corte di Cassazione si esprimesse sull’esito del voto, il Consiglio dei Ministri del Regno, presieduto da De Gasperi, sollevò il re dalle sue funzioni e attribuì a De Gasperi le funzioni di Capo dello Stato ad interim. Si trattò d’un vero e proprio colpo di Statooperato contro la stessa legalità fissata dal diritto vigente e, in particolare, dai decreti di cui sopra.Così se il referendum fu legale ma illegittimo, la deposizione di re Umberto II fu anche illegale oltre che illegittima e così la giudicò con nettezza il Nostro parlando sempre di colpo di Stato degasperiano del 1946. Coerentemente D’Agostino non smise mai di considerare l’Italia come il Regno di Umberto II, re esiliato e impossibilitato a esercitare la sua legittima potestà ma pur sempre il vero Capo di Stato dell’Italia. Il regime nato con il colpo di Stato degasperiano fu da D’Agostino considerato regime usurpatizio, illegittimo. Le autorità della Repubblica sono, per il Nostro, autorità solo de facto e solo in ragione della impossibilità all’esercizio della potestà regia nella quale si trova l’autorità legittima.
D’Agostino, secondo la migliore scuola classico-cristiana di diritto pubblico, riconosce che un regime illegittimo nato dall’usurpazione possa conseguire nel tempo la propria legittimità, condicio sine qua non di tale legittimazione storica è la conformità del regime de facto al diritto naturale e divino quanto all’esercizio. La legittimità d’esercizio, a certe altre date condizioni, nel lungo tempo fa legittimo il regime nato tirannico ex defectu tituli. Per D’Agostino si sarebbe potuto verificare anche relativamente all’illegittima Repubblica Italiana se si fosse costituita come vera comunità politica cristiana ordinata secondo il diritto naturale e divino. Ecco allora l’importanza che D’Agostino riconosce (in negativo) alla Costituzione del ’48 che segna il passaggio da un regime d’usurpazione potenzialmente legittimabile ad un regime, quello repubblicano sancito dalla Carta Costituzionale, non solo illegittimo ma anche in se stesso non legittimabile perché fondato su principi contrari alla legge naturale e alla Dottrina cattolica.
Sono molti gli scritti nei quali D’Agostino affronta criticamente il problema della Costituzione repubblicana e ne analizza il contenuto alla luce del diritto naturale e del Magistero sociale della Chiesa. D’Agostino è il solo, nei primi anni del secondo dopo guerra, a denunciare la Costituzione repubblicana come contraria alla Dottrina sociale della Chiesa, come formale instaurazione dello Stato moderno in Italia. Il Nostro svolge una dettagliata analisi critica del testo costituzionale esaminandolo, ad esempio nel suo “L’«illusione» democristiana”, articolo per articolo esmascherandone l’impostura dove la dirigenza democristiana ne tesseva gli elogi come di Legge fondamentale cristianissima. D’Agostino ne segnala, invece, la natura atea, l’ideologia liberale che la nutre, lo statalismo che nega in radice la vera sussidiarietà e i corpi intermedi nel loro naturale diritto, l’usurpazione del sacrosanto diritto/dovere della famiglia e della Chiesa all’educazione, l’attentato al matrimonio come patto di diritto naturale (per i battezzati Sacramento soggetto unicamente all’ordinamento canonico) rimesso, invece, alla potestà dello Stato, la messa nel nulla del Concordato violato per via costituzionale (altro che la costituzionalizzazione dei Patti lateranensi propagandata dalla DC!). L’analisi di D’Agostino è finissima e rileva proprio come l’articolo 7, mentre riconosce i Patti lateranensi, con ciò stesso li subordina al volere sovrano dello Stato e ne pone così le premesse di nullità
Il Nostro non manca poi di rilevare come già nel testo della Costituzione diversi articoli siano in aperta violazione dei Patti. La Repubblica italiana si auto-comprende come laica (nel senso moderno) ovvero atea, come sovrana (ovvero negatrice di un ordine di giustizia superiore l’ordinamento positivo), come relativista. Lo studio confutatorio del D’Agostino prosegue esaminando gli articoli che trattano della educazione, del lavoro, della proprietà, del sistema politico repubblicano e in tutti sottolinea con acume la tara ideologica riconducibile al paradigma liberal-democratico del costituzionalismo contemporaneo.
A partire dal 1943 D’Agostino viene elaborando un proprio pensiero economico-sociale che sia traduzione della grande lezione della Dottrina sociale dei Papi, in particolare di Leone XIII e Pio XI. Nel 1945 il Nostro pubblica il suo primo scritto in materia economica proponendo quello che diverrà il modello socio-economico di tutta la sua lunga vita pubblica: l’associazionismo aziendale. D’Agostino imposta il problema volutamente in modo classico concependo l’economia come parte della scienza etica e dunque la giustizia quale criterio direttivo di ogni agire economico. È così negata in radice l’idea tanto liberale di una economia intesa sul modello delle scienze fisiche quanto l’idea marxista di una economia deterministicamente compresa come struttura nel quadro del materialismo storico-dialettico. L’economia è invece ambito etico che, come tale, presuppone la libertà dei soggetti agenti come condizione di possibilità, la giustizia quale criterio e il bene quale fine. Ecco allora che la vita economica dovrà darsi sempre secondo giustizia.
Date queste premesse, D’Agostino esamina il diritto societario, la struttura giuridica stessa delle imprese economiche, le relazioni giuridiche tra portatori di capitale e lavoratori. Nasce così il modello associazionista come riconoscimento, secondo giustizia, dell’inseparabile apporto del capitale e del lavoro nella costituzione e nella vita dell’impresa economica. Con Pio XI il Nostro afferma la natura consortile dell’impresa economica, consorzio di capitale e lavoro. Dal che il comune diritto, di capitalisti e lavoratori (del braccio e della mente), alla comproprietà dell’azienda, alla cogestione, al riparto degli utili, alla assunzione del rischio d’impresa. La dottrina dell’associazionismo aziendale viene precisata e proposta compiutamente nel 1953 con il volume “Associazionismo aziendale: soluzione dei rapporti tra Capitale e Lavoro in armonia con gli Insegnamenti Pontifici” dove D’Agostino presenta nel dettaglio la sua proposta precisandone le modalità concrete di traduzione in sede di diritto societario.
Secondo il modello associazionista, D’Agostino concepì e realizzò pure la Casa Editrice “L’Alleanza Italiana”- S.C.E.L.A.I., società editoriale che diresse sino alla morte. D’Agostino non si limita a proporre un particolare modello di diritto societario, piuttosto intende affrontare la questione socioeconomica con le categorie etiche classico-cristiane ripensando quel dato ordine della vita in società secondo giustizia. Così le critiche al liberal-capitalismo, alla social-democrazia, alla lotta di classe, allo Stato-Provvidenza, al fiscalismo esoso, al Welfare State, etc. sono concepite dal Nostro come denuncia di ciò che viola la giustizia, di ciò che usurpa i diritti naturali di lavoratori, proprietari, famiglie, corpi intermedi, etc. È sempre la giustizia (classicamente intesa) a guidare la riflessione, la critica, la proposta del Nostro.
D’Agostino così concepisce un quadro unitario di vita socio-economica dove la libertà d’impresa è massima per quanti intendano affrontare il rischio del lavoro in proprio come artigiani o commercianti, la proprietà privata è garantita, riconosciuta come diritto naturale, le imprese economiche con personalità giuridica sono ricondotte al modello associazionista così che vi sia comune partecipazione al rischio d’impresa per portatori di capitale e lavoratori. Il risparmio privato e la piccola proprietà immobiliare non solo sono tutelate ma favorite. L’ambitoprevidenziale e assistenziale è ricondotto all’ambito civile, a competenza delle libere aggregazioni sociali della società civile, ai corpi intermedi. La pretesa fiscale è limitata al necessario per garantire l’adempimento dei compiti propri dello Stato fissati dal D’Agostino in pochi e dettagliati punti definiti all’art. 5 del Progetto di Nuova Carta Costituzionale. L’attività economica è riconosciuta come di esclusivo ambito privato. La tutela della stabilità monetaria, del sistema bancario e il rifiuto dell’indebitamento pubblico sono per D’Agostino pilastri di ogni sana politica economica. Questo modello socio-economico, che D’Agostino chiamerà di libera economia associata, fu la proposta costantemente avanzata dal C.P.I. e dal Nostro personalmente.
Tanto la rivendicata fedeltà al principio confessionale dell’articolo 1 dello Statuto albertino e dei Patti lateranensi, quanto la proposta di libera economia associata sono comprese dal D’Agostino nel quadro complessivo d’una res publica intesa classicamente come non separabile dalla virtù di religione. Per D’Agostino solo una comunità politica conforme al diritto naturale e divino, che adempie ai propri doveri verso Dio, doveri anche di culto, è realtà politica legittima. Il Nostro concepisce dunque l’Italia come res publica christiana, come regno cattolico nella Chiesa universale. Per D’Agostino, secondo l’insegnamento del Magistero e la migliore tradizione politica cattolica, comunità politica e Chiesa sono realtà distinte ma non separate così come la potestà regale e l’autorità ecclesiastica. L’ideale da perseguire è quella comune concordia tra il Sacerdozio e l’impero di cui parla Leone XIII nell’Immortale Dei e che trova nella regalità sociale di Cristo il punto d’unità sì che Chiesa e res publica sono ambedue soggette a Cristo e non si dà ordine temporale che non sia armonicamente gerarchizzato con l’ordine spirituale data l’unità della persona umana, dell’ordine di Provvidenza dato e dell’unica signoria di Cristo.
D’Agostino sviluppa le sue riflessioni conformemente alle conclusioni raggiunte dal diritto pubblico ecclesiastico circa la potestas in temporalibus del Papa, così il Progetto di Nuova Carta Costituzionale elaborato dal Nostro si apre affermando che “Lo Stato Italiano riconosce l’autorità dei Romani Pontefici e ne esegue le sentenze”. Lo Stato, per essere legittimo, deve darsi sempre conformemente al diritto naturale e divino, suprema Cattedra del diritto naturale e divino non può essere che la Cattedra di Pietro, ragion per cui le sentenze del Romano Pontefice devono valere come norma nello Stato. Come si vede la res publica concepita dal D’Agostino non è lo Stato confessionale moderno, è piuttosto una organica comunità politica informata dalla Verità di Cristo. Ogni aspetto della vita politica e sociale è organicamente integrato e cristianamente dato.
Il Progetto di Nuova Carta Costituzionale e tutta la vasta produzione pubblicistica del Nostro testimoniano questo costante impegno per la organica conformazione a Cristo della comunità politica e della società tutta. Ne segue il rifiuto del principio di sovranità e, con esso, di quella sua particolare declinazione che è la democrazia modernamente intesa, del giuspositivismo e dell’idea liberale del diritto (compreso il personalismo così detto cattolico, in verità versione radicale dell’ideologia liberale). […]

sabato 12 novembre 2016

Don Pedro de Borbón-Dos Sicilias: «Me parece una osadía por parte de mi primo pretender un trono que a día de hoy no existe»

Es hijo del Infante Don Carlos de Borbón Dos Sicilias y de la PrincesaDoña Ana de Orleáns. Duque de Calabria desde la muerte de su padre, el pasado año, y Presidente del Real Consejo de las Órdenes Militares Españolas; es además un orgulloso padre de siete hijos, fruto de su matrimonio con Sofía Landaluce Melgarejo. Extremadamente discreto, ha intentado evitar el conflicto familiar que mantiene con su primo Carlos de Borbón Dos Sicilias, duque de Castro. «Hasta ahora no he respondido a las provocaciones de mi primo, porque en enero de 2014 nos comprometimos a no agredirnos ni perjudicarnos mutuamente. Desde ese momento he cumplido mi palabra, como me inculcó mi querido padre», afirma para ABC.
—Señor, ¿cómo le tengo que tratar?
—Estoy acostumbrado a todo tipo de tratamientos así que puede tratarme como más a gusto se sienta usted.
—Pero por ser Alteza Real, debería tratarle de Señor, ¿no?
—Sí, pero si me tuteas no me molestará en absoluto; en mi día a día, en mi trabajo, lo hacen constantemente.
—El Señor es ingeniero agrícola y se dedica a administrar fincas, ¿cierto?
—Efectivamente, desde pequeño mi pasión ha sido el campo y la naturaleza, he tenido la enorme fortuna de poder hacer de ello mi profesión. Todas las empresas en las que trabajo tienen que ver de alguna manera u otra con la naturaleza. Gestiono fincas forestales, agrícolas, ganaderas y cinegéticas. Soy socio fundador de varias empresas de alimentación animal, asesoramiento, gestión y proyectos.
—Además dedica gran parte de su tiempo a otros trabajos, podríamos llamar «no remunerados»
—(Risas). Cierto, no son remunerados pero no por ello son menos importantes, sino todo lo contrario. Me siento muy orgulloso y privilegiado por una parte, al tomar el testigo y continuar con el legado familiar en la Sagrada Orden Constantiniana de San Jorge. Y por otro lado no me pude sentir más honrado cuando S.M el Rey Don Juan Carlos me nombró Presidente del Real Consejo de las Órdenes de Santiago, Calatrava, Alcántara y Montesa. Es un honor y una gran responsabilidad, pues estas órdenes son una parte muy importante de la historia de España. Además, formo parte de otras corporaciones tan honorables como las anteriores, con las que colaboro como buenamente puedo.
—¿A qué se dedican hoy en día todas estas órdenes?
—En primer lugar, ser miembro de una orden te obliga a ser una persona honorable y a tener un comportamiento ejemplar. Todas las órdenes promueven labores benéficas, históricas, culturales y religiosas. Colaboramos en obras benéficas tanto en Europa como fuera de Europa, ayudamos a monasterios, conventos, seminarios y colegios; financiamos becas, premios y campamentos infantiles en países en vías de desarrollo.
—¿Qué piensa sobre la polémica que existe actualmente entre el Señor y el duque de Castro?
—Yo siempre he intentado evitar polémicas. Firmamos y pactamos una serie de acuerdos en enero de 2014; acuerdos que mi primo Carlos rompió unilateralmente. En ese momento no tuve más remedio que recordárselo. Desde entonces y hasta ahora no ha parado de sacar en diferentes medios de comunicación y redes sociales, diferentes artículos y comunicados contra mi familia y contra mí.
—¿Y el Señor por qué no responde?
—Hasta ahora no he respondido a las provocaciones de mi primo porque en enero de 2014 ambos nos comprometimos a no agredirnos ni perjudicarnos mutuamente; desde ese momento he cumplido mi palabra, como me inculcó mi querido padre. Hoy siento la necesidad de contestar algunas de estas afirmaciones pues no quiero que se cumpla el viejo refrán castellano de «El que calla otorga».
—¿Conoce las últimas declaraciones del duque de Castro de días atrás?
—Sí, he leído esas declaraciones y muchas otras. En todas ellas mi primo intenta confundir al lector. Quiere mezclar tres temas totalmente diferentes y hacer de ellos uno solo. Los tres asuntos que están en juego son por una parte el Gran Maestrazgo de la Sagrada Orden Constantiniana de San Jorge, la Jefatura de la Casa Borbón- Dos Sicilias y el otro es la Jefatura de la Casa Real de las Dos Sicilias.
—¿Me podría explicar la diferencia de estos tres asuntos?
Primero, el Gran Maestrazgo de la Sagrada Orden Constantiniana de San Jorge. Este cargo se sucede por línea agnada rigurosa hasta nuestros días. A este Maestrazgo NUNCA renunció mi bisabuelo. Por lo tanto, siguiendo la línea agnada, el Gran Maestrazgo recae en mi persona a partir del fallecimiento de mi padre. Esto es incuestionable.
Segundo, la Jefatura de la Casa Borbón Dos Sicilias. Esta Jefatura se hereda siempre por línea de varón y agnación (primogenitura). A esta Jefatura jamás renunció mi bisabuelo el Infante Don Carlos; por lo que esta cuestión no admite discusión alguna.
Tercero, pretensión al Trono de las Dos Sicilias o Jefatura de la Casa Real de las Dos Sicilias. Éste es el único punto que, siendo generoso sería discutible, pues efectivamente, mi bisabuelo firmó en 1900 una renuncia condicionada. Yo, personalmente, no tengo ninguna duda de que esta renuncia quedó sin efecto alguno al no haber concurrido las condiciones para ello. Sobre todo, me quedó aún más claro el día que mi Padre me hizo leer 5 Informes emitidos por: El Ministerio de Justicia Español, Real Academia de Jurisprudencia y Legislación, «Instituto Salazar y Castro» y el Ministerio de Asuntos Exteriores, todos ellos del año 1983, además del Informe emitido en el año 1984 por el Consejo de Estado. Son Informes emitidos por Instituciones de sobrado prestigio. Estos no dejan ninguna duda de que la Jefatura de la Casa Real de las Dos Sicilias le corresponde a mi padre.
—Pero su primo también afirma que él es el único heredero al trono.
—No sé lo que pretende, me parece una osadía por su parte; primero porque en estos momentos no existe el trono que reclama; y segundo, porque él no es quien para hacerlo. De todas formas me gustaría dejar claro que yo no pretendo ningún trono. Lo único que pretendo en esta vida es educar bien a mis hijos, desarrollar bien mi trabajo y sobre todo, llevar con humildad, honradez y dignidad la Jefatura de mi Casa, que es la Jefatura de la Casa Real de las Dos Sicilias. Cuando hablo de desarrollar bien mi trabajo, me refiero al trabajo que da de comer a mis hijos y a esos otros que me decía usted «no remunerados» económicamente. (Risas). Todavía quedan muchas cosas buenas por hacer y muchísimo trabajo por delante.
—Ha mencionado la educación de sus hijos, ¿es distinta respecto a otros niños de su edad?
—No, educamos a nuestros hijos en un ambiente familiar. En este tema la que tiene todo el mérito es Sofía, mi mujer, pues está dedicada en cuerpo y alma a ellos. Para nosotros, educación no es sólo buenos colegios y universidades, sino la educación cristiana que se recibe en casa. Tenemos siete hijos, por lo tanto no nos podemos permitir nada especial.
—¿Cómo es el día a día en una familia de siete hijos?
—Complicado, sobre todo la logística, pero muy gratificante. Tenemos la suerte de que todos colaboran, solo es cuestión de organización y austeridad.
—¿Cuándo empezó la disputa entre la rama española y la italiana?
—En realidad la disputa es entre la rama española y la rama francesa, pues los orígenes de las dos ramas son napolitanos. Tras el destierro de nuestros antepasados, la rama de mi primo Carlos se quedó a vivir en Francia, y mi familia se asentó en España.
La disputa empezó en 1960 al fallecer Don Fernando Pío de Borbón Dos Sicilias. Al mes de su muerte, como manda nuestra tradición familiar, mi abuelo, el infante Don Alfonso, asume la Jefatura de la Casa; y Don Rainiero, que era el hijo cuartogénito del Conde de Caserta, no acató aquella jefatura. Si se leen el informe emitido por el Conde de Borrajeiros, Magistrado del Tribunal Supremo y Académico de número de la Real Academia de Jurisprudencia y Legislación pueden seguir el resto de la historia.
—En la última entrevista concedida por Don Carlos afirma que la Condesa de Barcelona se negó a reconocer a su padre como Duque de Calabria.
—No sé de dónde saca mi primo esta conclusión. Lo que sí le puedo decir es que, hace muy poco, ordenando la documentación de mi padre, pude ver una copia del testamento de S.A.R. la Condesa de Barcelona en el que mi padre era nombrado Albacea como Duque de Calabria.
—Otra de las polémicas declaraciones de su primo ha sido afrimar que ninguna Familia Real ha dado crédito a sus pretensiones.
—Vuelvo a repetir que yo no tengo ninguna pretensión, pero también le aclaro que «hacerse fotos con…», «estar invitado a…», o que otras familias acepten la invitación de uno, no significa que esté siendo apoyado o legitimado por ninguna Casa Real. También menciona mi primo que tiene en su posesión ciertos objetos familiares y que, por lo tanto, eso le acredita como único heredero. A eso tengo que decir, en primer lugar, que me alegro que estos objetos familiares estén en manos de la familia. Casi todos en nuestra familia hemos recibido algo que proviene de nuestros antepasados. En concreto, mis hermanas y yo también tenemos objetos familiares. La posesión de objetos no legitima una causa. Todos estos comentarios me parecen un sin sentido. Sólo los utiliza alguien que necesita encontrar argumentos para reafirmarse.
—¿Cuál es su opinión sobre S.M el Rey Felipe VI?
—Como español no me podría sentir más afortunado con el Rey que tenemos y con el que hemos tenido. Como dijo su padre: «El Rey Felipe VI es el Rey mejor preparado de la Historia de España». Lo está demostrando.
—Por lo que veo, le considera su Rey.
—¡Por supuesto! Con S.M. el Rey Felipe VI y con la Corona española siempre he tenido absoluta lealtad, fidelidad y servicio. Al igual que hicieron mi padre, mi abuelo y mi bisabuelo. ¡Lo tengo muy claro!
—Vayamos al tema personal, ¿defectos suyos?
—Ufff (risas) muchísimos, eso mejor preguntárselo a mi mujer, dice que soy muy testarudo y confiado.
—¿Se arrepiente de algo?
—Errores cometemos todos pero soy de los que piensan que de todo se aprende y que no hay que arrepentirse de las decisiones tomadas. Quizás, me hubiera gustado haber aprendido más idiomas.
—¿Su mayor acierto?
—Nuestro matrimonio.
—¿Lo que más le gusta?
—Mi familia y la naturaleza.
—¿Lo que más le irrita?
—La impuntualidad.
—Y para acabar, ¿quiere decirle algo a su primo?
—Por supuesto. Que siempre he estado y estaré abierto al diálogo con él, sin condiciones de ningún tipo. Y que le deseo lo mejor a él y a toda su familia.

Quando San Pio X, inascoltato, spiegava come stroncare il modernismo

La storia della Chiesa ci insegna che non pochi vescovi, durante il pontificato di papa Sarto, hanno ingenuamente sottovalutato la gravità del pericolo modernista e ne hanno permesso la sopravvivenza. Esso, così, ha continuato a serpeggiare segretamente; poi cautamente è rinato pian piano sotto forma di nouvelle théologie o neomodernismo negli anni Trenta/Quaranta ed è stato condannato energicamente nel 1950 da Pio XII (Enciclica Humani generis); ma, dopo la morte di papa Pacelli, “il modernismo redivivo” ha sfondato senza remore ogni argine con “l’aggiornamento” di Giovanni XXIII e con il Concilio Vaticano II. Infine ha raggiunto, in maniera ostentata, il vertice dell’ultra modernismo con Francesco I, con il quale ci si trova praticamente già nello spirito del “Vaticano III”, auspicato da Rahner, Küng e Schillebeeckx, secondo i quali il Vaticano II si sarebbe fermato a metà strada nella “rivoluzione” della Chiesa.
Nel Motu proprio “Sacrorum Antistitum” San Pio X mette in luce la malizia dei modernisti da lui qualificati “una perniciosissima [‘dannosissima’, N. Zingarelli] genìa [‘accolta di gente malvagia’, N. Zingarelli] di uomini”, che, nonostante siano stati smascherati nel 1907 con l’EnciclicaPascendi dalle sembianze di una presunta scienza ecclesiastica moderna, sono rimasti nella Chiesa per sovvertirla dall’interno sin dalle sue fondamenta, e perciò Pio X si augura che “nessun vescovo ignori che […] non hanno abbandonato i loro propositi di turbare la pace della Chiesa”[1].
Papa Sarto sottolinea che essi sono “avversari tanto più temibili in quanto più vicini”[2] ribadendo ancora una volta il pericolo tipico del modernismo: il voler restare dentro la Chiesa per corroderne la sostanza lasciando solo l’apparenza, così come un tarlo rode il mobile nel quale si annida. Leggendo i Documenti di San Pio X ci si accorge che il Papa insiste molto sul pericolo dei “falsi fratelli” (San Paolo II Cor., XI, 26), il quale è una delle insidie più perniciose poiché li si reputa fratelli e invece sono nemici e lottano contro la Chiesa e i veri fedeli colpendoli alle spalle.
A questo punto San Pio X affronta il problema dei modernisti ecclesiastici, i quali, data la loro posizione di comando nella Chiesa, sono i più temibili. Costoro, “abusando del loro ministero, inseriscono negli animi un’esca avvelenata per sorprendere gli incauti, diffondendo una parvenza di dottrina in cui si racchiude la somma degli errori”[3]. È triste, ma è la realtà: i modernisti ecclesiastici approfittano del loro stato e invece di servire la Chiesa se ne servono per avvelenare le anime dei fedeli incauti e ingenui mediante una dottrina apparentemente cattolica ma sostanzialmente erronea, anzi il sistema modernista riunisce in se stesso tutti gli errori teologici, essendo il modernismo “il collettore di tutte le eresie”.
“Questa peste si diffonde in una parte del campo del Signore da cui sarebbero da aspettarsi i frutti più consolanti”[4], deplora San Pio X. Ed infatti il modernismo è penetrato massimamente nelle fila del giovane clero e anche nell’animo di alcuni ecclesiastici, che avrebbero dovuto lavorare all’edificazione della Chiesa e invece hanno lavorato per mutare il Cristianesimo in una vaga forma di esperienza religiosa sentimentalistica, senza dogmi, morale oggettiva, gerarchia e disciplina.
Per questo motivo il Papa dà una serie di ordini, racchiusi in brevi proposizioni, affinché i vescovi possano più facilmente estirpare la mala pianta modernista e rimuovere gli ecclesiastici modernisti dai posti di comando nella Chiesa. Vediamone i principali.

Lo studio del Tomismo
Per quanto riguarda gli studi ecclesiastici essi debbono essere fatti sulle orme della filosofia scolastica e specialmente tomistica: «L’ allontanarsi da San Tommaso d’Aquino, specialmente in metafisica, non avviene senza grave danno. Come diceva l’Aquinate stesso: “parvus error in principio fit magnus in fine / un piccolo errore iniziale e riguardo ai princìpi diventa grande alla fine”» (De ente et essentia, proemio)[5]. Allontanarsi dalla metafisica dell’essere comporta il grave pericolo di conclusioni disastrose.
Se “i problemi del momento [la nouvelle théologie, ndr] si vanno facendo sempre più gravi, questa è una ragione – scriveva il padre Garrigou-Lagrange – per ritornare a studiare e capire la vera dottrina di S. Tommaso intorno all’essere, alla verità, al valore dei primi princìpi dai quali si risale con certezza all’esistenza di Dio. […]. Si tratta dei princìpi direttivi del pensiero e della vita morale,tanto più necessari quanto più le condizioni dell’ esistenza umana si fanno maggiormente difficilie richiedono certezze più ferme”[6].
Già Leone XIII nella Lettera al Generale dei Francescani del 13 dicembre del 1885 aveva scritto: «L’allontanarsi dalla dottrina del Dottore Angelico è cosa contraria alla Nostra volontà, e, assieme, è cosa piena di pericoli. […]. Coloro i quali desiderano di essere veramente filosofi, e i religiosi sopra tutti ne hanno il dovere, debbono collocare le basi e i fondamenti della loro dottrina in S. Tommaso d’Aquino».
San Pio X con la promulgazione del Motu proprio “Doctoris Angelici” del 29 giugno del 1914, imponeva come testo scolastico la Summa Theologiae di San Tommaso alle facoltà teologiche, sotto pena d’ invalidarne i gradi accademici. Papa Sarto richiamava l’obbligo di insegnare i princìpi fondamentali e le tesi più salienti del tomismo (“principia et pronuntiata majora”)[7] e a tal fine incaricò nell’inverno del 1914 il padre gesuita Guido Mattiussi di “precisare il pensiero di S. Tommaso sulle questioni più gravi in materia filosofica, e di condensarle in pochi enunciati chiari ed inequivocabili”[8]. Nell’estate del 1914 il card. Lorenzelli, Prefetto della ‘S. Congregazione degli Studi’, presentò le XXIV Tesi compilate da Mattiussi a San Pio X, che le approvò il 27 luglio del 1914[9].
Il 7 marzo 1916 la ‘S. Congregazione degli Studi’ a nome del papa Benedetto XV stabilì che “Tutte le XXIV Tesi filosofiche esprimono la genuina dottrina di San Tommaso e sono proposte comesicure (tutae) norme direttive”[10]. Successivamente il Magistero ecclesiastico, sempre con papa Benedetto XV, il 7 marzo 1917 decise che «le XXIV Tesi dovevano essere proposte come regole sicure di direzione intellettuale. […] Nel 1917 il ‘CIC’ nel canone 1366 § 2 diceva: “Il metodo, i princìpi e la dottrina di S. Tommaso devono esser seguiti santamente o con rispetto religioso”. Tra le fonti indicate il ‘Codice’ addita il ‘Decreto di approvazione delle XXIV Tesi’»[11].
Sempre papa Giacomo Della Chiesa nell’Enciclica Fausto appetente die (29 giugno 1921) insegnava: «La Chiesa ha stabilito che la dottrina di S. Tommaso è anche la sua propria dottrina (“Thomae doctrinam Ecclesia suam propriam esse edixit”)» e Pio XI nell’enciclica Studiorum ducem (1923) ha ribadito l’insegnamento delle Encicliche di Leone XIII, S. Pio X e Benedetto XV per cui è certo che la dottrina della Chiesa è quella di S. Tommaso: “Ecclesia edixit doctrinam Thomae esse suam” (Benedetto XV, Fausto appetente die, 1921).
Papa Sarto nel Motu proprio “Sacrorum Antistitum” vuole che si studi la patristica e la teologia positiva, ma senza detrimento della filosofia scolastica, spregiata sommamente dai modernisti. Infatti il “ritorno alle fonti”, l’amore della sola patristica, cui viene contrapposta “l’arida scolastica”, sono l’arma dei modernisti per generare la confusione nelle menti del clero, che, senza una seria preparazione tomistica, non riesce a mettere ordine nella bella e vasta, ma non sistematizzata materia della patristica. San Tommaso è colui che ha ricondotto ad una sintesi organica e precisa l’ elaborazione dottrinale, ancora in stato di fermentazione, della patristica ed ha portato all’apice della massima perfezione la teologia sistematica basandosi e perfezionando la patristica. In breve la teologia nata con la patristica raggiunge i sommi vertici della speculazione filosofico/teologica specialmente con San Tommaso d’Aquino.

Allontanare gli insegnanti modernisti
San Pio X ordina di allontanare senza alcun riguardo i direttori e gli insegnanti dei seminari e delle università pontificie imbevuti di modernismo. Con il suo buon senso papa Sarto ricorda che non si può insegnare la verità senza condannare l’errore ed anche l’errante senza il quale non esisterebbero errori. Infatti “Actiones sunt suppositorum / le azioni sono prodotte dalle persone”, per cui se si condannano solo gli errori, ma non gli erranti, si lasciano sopravvivere gli errori e ciò equivarrebbe a combattere il furto senza arrestare i ladri.
In avvenire non sia conferita, continua il Papa, la laurea in teologia e in diritto canonico a chi non avrà prima compiuto il corso di filosofia scolastica[12]. San Pio X dà moltissima importanza allo studio della filosofia sistematica tomistica. Purtroppo,spesso, nei seminari si è data poca importanza alla filosofia sistematica e, quindi, alle prime obiezioni e contestazioni dei modernisti non si è saputo rispondere con precisione e con cognizione di causa andando al perché della questione. Infatti solo la conoscenza della filosofia scolastica ci fa capire il perché delle soluzioni teologiche e se manca la base filosofica non sussiste la vera teologia. Inoltre si tenga presente che ogni errore teologico, politico, economico ha una radice filosofica.

I “libri proibiti”
I vescovi, ricorda il Motu proprio, hanno il dovere di impedire che siano letti o pubblicati gli scritti dei modernisti o che odorano di modernismo: “Infatti essi non sono meno dannosi dei libri pornografici; anzi sono ancora peggiori, perché viziano le radici stesse della vita cristiana”[13].
Spessissimo il vizio morale ha come fonte una deviazione dottrinale: si vive come si pensa. L’Aquinate (II Sent., dist. 39, q. 3, a. 2, ad 5) insegna che la radice dell’errore è la cattiva volontà, la quale spinge l’intelletto ad aderire a ciò che fa comodo e non a ciò che è vero.
Vi sono pure uomini di non cattive intenzioni, che, digiuni di studi teologici e imbevuti di filosofia moderna, cercano di accordare questa con la fede. “Il buon nome e la buona fama degli autori fa sì che le loro pubblicazioni siano lette senza alcun timore; quindi sono più pericolosi perché a poco a poco portano al modernismo”[14].
Il Papa ricorda che la filosofia moderna è inconciliabile con la fede e la retta ragione poiché fa dipendere la realtà dal pensiero soggettivo dell’uomo. La filosofia moderna è iniziata con Cartesio e il suo Cogito ergo sum ed ha proseguito il suo corso con Kant ed Hegel, ossia con l’idealismo totalmente soggettivista e relativista.

L’imprimatur
Per la pubblicazione i libri debbono prima essere esaminati da un censore, che darà per primo la sua sentenza. Se questa sarà favorevole il vescovo concederà la facoltà di stampa o l’Imprimatur, la quale sarà preceduta dalla formula Nihil obstat e dal nome del censore[15]. Un cattivo libro può rovinare le menti e i cuori, mentre un libro buono può aiutare a conoscere il vero e ad amare il bene.

Fatti concreti
Il Papa viene al sodo e si domanda senza giri di parole: “a che cosa gioveranno questi Nostri comandi se non verranno osservati a dovere e con fermezza?”[16]. In breve “fatti e non parole”, come insegna Sant’Ignazio da Loyola nell’aureo libro dei suoi Esercizi spirituali. Non basta condannare il modernismo a parole, ma bisogna prendere misure pratiche contro i modernisti.

Pietà e dottrina
Per la buona formazione del clero papa Sarto ricorda che sono assolutamente necessarie due cose: la dottrina e la virtù. Se il giovane seminarista manca di queste due disposizioni, dopo un anno di prova deve essere rinviato e non più ripreso in nessun altro seminario. Occorre che il seminarista abbia vita innocente assieme alla integrità di dottrina, la quale deve essere superiore alla media perché occorre lottare contro i modernisti che sono nemici per nulla sprovveduti, i quali associano alla raffinatezza degli studi una scienza intessuta di inganni. Quindi i buoni sacerdoti debbono essere forniti di armi efficaci[17]. “Doctus cum pietate et pius cum doctrina/ dotto con pietà e pio con dottrina” è il motto degli scolastici: la sola dottrina senza pietà gonfia di orgoglio e la sola pietà senza dottrina è cieca e non sa rispondere alle obiezioni dei novatori.

Segue il giuramento antimodernista che i chierici debbono prestare a partire dal suddiaconato e che rappresenta un compendio della dottrina cattolica e degli errori modernisti in esso condannati.


[1] U. Bellocchi (a cura di), Tutte le Encicliche e i principali Documenti pontifici emanati dal 1740, Città del Vaticano, LEV, vol. VII, Pio X, 1999, p. 425.
[2]Ivi.
[3]Ivi.
[4]Ivi.
[5]Ivi.
[6]R. Garrigou-Lagrange, La sintesi tomistica, Brescia, Queriniana, 1953, p. 411.
[7]Acta Apostolicae Sedis, 1914, p. 338.
[8]Tito Sante Centi, Introduzione generale alla Somma Teologica, Firenze, Salani, 1949, vol. I, Le XXIV Tesi, p. 269.
[9]Cfr. C. Nitoglia, Le XXIV Tesi del Tomismo, Proceno (VT), FDF, 2015
[10]AAS, 1916p. 157.
[11]R. Garrigou-Lagrange, La sintesi tomistica, Brescia, Queriniana, 1953, p. 400.
[12]U. Bellocchi (a cura di), Tutte le Encicliche e i principali Documenti pontifici emanati dal 1740, Città del Vaticano, LEV, vol. VII, Pio X, 1999, p. 425.
[13]Ivi.
[14]Ib., p. 428.
[15]Ib., p. 429.
[16]Ib., p. 430.
[17]Ib., p. 433.

mercoledì 2 novembre 2016

Re Umberto II E la Sacra Sindone


Sopravvissero sempre in Umberto la precisione e il gusto del collezionista. Una delle prime imprese a cui si dedicò dopo l'esilio fu la ricostituzione, sulla base di fotografie, della sua raccolta iconografica relativa alla Sacra Sindone, che, ricoverata a Cassino, durante la guerra, era andata quasi interamente distrutta dai bombardamenti. Il Re, pazientemente, setacciò tutti gli antiquari europei, fin quando non rimise insieme i pezzi sopravvissuti.
L'interesse scientifico e la devozione di Umberto per la reliquia legata a doppio filo con il suo casato, riempirono un altro capitolo della sua vita di esule.
Dall' "Archivio del Santo Sudario" continuamente aggiornato da Umberto a Villa Italia, si appende che il 10 giugno 1946, il giorno della famosa strana seduta della Corte di Cassazione, il Sovrano aveva scritto al Cardinale di Torino Maurilio Fossati per autorizzare il ritorno nella Cappella Guariniana della Sindone, trasferita in gran segreto - per proteggerla dalle incursioni aeree - al Santuario di Montevergine, nei dintorni di Avellino, il 25 settembre 1939.
Umberto, negli anni della seconda guerra mondiale, si era tenuto sempre in contatto con i monaci benedettini che nascosero la cassa sotto l'altare. E i primi del novembre 1946 ricevette finalmente, da Fossati, il verbale che attendeva con una certa impazienza. Una sorta di diario dell'insolito viaggio della reliquia, partita in auto da Avellino il 29 ottobre. Poi il 30, alle 14.20, in treno, in un normale vagone letto, da Roma fino a Torino. Dove arrivò all'insaputa di tutti il 31 ottobre alle 11.30.
Umberto archiviò tutto: centinaia di lettere che documentano la sua corrispondenza con sindonologi italiani, spagnoli, francesi, tedeschi e americani; il messaggio del Conte Umberto Provana di Collegno, uno degli ultimi insigniti col Collare dell'Annunziata, che, il 4 ottobre 1971, lo mette al corrente del tentato incendio del Sacro Lino da parte di un maniaco; le autorizzazioni a nuove indagini scientifiche.
Con l'aiuto della Signorina Rabbia, Umberto si attiva instancabilmente perché la Sindone venga "conosciuta e osservata" ovunque.
Nel '64 dona a un museo di Siviglia una foto a grandezza naturale del Sacro Lino.
Contribuisce come può a mostre e seminari. E, contrariamente a quanto suggeritogli dal suo entourage, non si oppone neppure all' "ostensione televisiva della reliquia" nel Salone degli Svizzeri del Palazzo Reale di Torino.
Grazie al suo assenso, per la prima volta, in eurovisione, alle 21 del 25 novembre 1978, precedute da un messaggio di Paolo VI, arrivarono in milioni di case le immagini a colori del misterioso uomo della Sindone.
Il Re chiese solo che le riprese avvenissero "in modo discreto ed ossequioso della SS reliquia".
L' "Archivio del Santo Sudario" tenuto da Umberto, in un certo senso, documenta la beffarda ingiustizia di cui è rimasta vittima il suo illustre conservatore: oggi si tende quasi a dimenticare l'impegno con il quale Re Umberto si dedicò alla reliquia e anche la generosità che lo spinse a lasciarla per testamento alla Santa Sede.
Un gesto coerente, quest'ultimo, con il fervore religioso e la sincera curiosità che fin da ragazzo provo' per la Sindone.
Mai uso', in vita, la reliquia quale fonte di prestigio o vantaggio personale. Affidandola alla Chiesa volle essere sicuro che nessuno mai, dopo la sua morte, l'avrebbe sottratta alla devozione dei fedeli.