di Aldo A. Mola
Elena fu a lungo tra i
nomi femminili più diffusi in Italia: omaggio di ogni ceto alla consorte di
Vittorio Emanuele III. Elena Petrovic-Niegos nacque dal principe (poi re) di
Montenegro: uno Stato piccolo ma pugnace, bastione della cristianità contro
l'islamizzazione della penisola balcanica, giunta sino alle porte di Vienna e
respinta col soccorso dei polacchi. Più tardi a ricacciarli fu Eugenio di
Savoia, uno dei grandi condottieri della storia.
Elena di Montenegro
studiò alla Corte dello zar Nicola II, che aveva alle spalle l'assassinio del
nonno, Alessandro II (1881), autore di importanti riforme, come l'abolizione delle arcaiche servitù dei contadini. Anarchici ed
estremisti colpiscono sempre i riformatori perché questi falciano l'erba nel
prato dei fondamentalisti. Ogni epoca, tragicamente, ha i suoi fanatici. Così
oggi Erdogan oscura il ricordo di Ataturk, massone e padre della Turchia
moderna.
Vittorio Emanuele,
principe di Napoli ed erede al trono d'Italia, conobbe Elena quando tutto aveva
in mente (storia, geografia, numismatica, viaggi...) tranne che la Corona. Per
il fidanzamento andò a Cettigne, capitale modesta e tuttavia avamposto
dell'Europa cristiana in una visione storica matura. Poliglotta, Elena
coltivava pittura, musica ed esoterismo. Nelle prime pagine dell' Itinerario
generale dopo il 1° giugno 1896 Vittorio Emanuele annotò: “(1896) Agosto.
5, Gaeta e Napoli; 6. A Napoli; 12. Da Napoli; 16. Da Antivari a Cettigne”.
Ricordò la gran festa il 18, onomastico di Elena, e il rientro, da Cettigne a
Napoli, alla volta di Firenze e Monza. Dopo settimane di viaggi (Stresa, La
Spezia per il varo della “Carlo Alberto”) e Firenze, ripartì per Cettigne. Vi
giunse il 19 ottobre. Il 21 era a Bari. Nel viaggio Elena passò dal culto
ortodosso a quello cattolico, perché così esigeva lo Statuto. Il 24 ottobre,
finalmente, il “Marriage”, come nell'Itinerario annotò il futuro re.
Da sposi, Vittorio ed
Elena servirono lo Stato con un seguito vertiginoso di missioni ufficiali in
Italia e all'estero, ma furono anche liberi di vivere la loro vita, che riservò
loro la “media di felicità”, secondo la formula usata da Giovanni Giolitti in
una lettera alla moglie. Ebbero cinque figli: Mafalda, sposata con il principe
d'Assia e morta per le conseguenze di un bombardamento dei “liberatori” sul
campo concentramento ove era detenuta dai nazisti (ne ha scitto Mariù Safier in
una sua eccellente biografia, edita da Bompiani); Jolanda, sposa del conte
Calvi di Bergolo; Umberto principe di Piemonte (14 settembre 1904, poi Umberto
II, re d'Italia), Giovanna (sposata da Boris III, zar dei Bulgari, e madre di
Simeone ora gagliardo ottantenne, esecutore testamentario di Umberto II) e
Maria.
Fu insignita da Papa Pio
XI della Rosa d'Oro: benemeritata per la sua carità. Ne è in corso la causa di
beatificazione. Dopo l'intervento dell'Italia nella grande guerra allestì al
Quirinale l'Ospedale Territoriale n. 1 per curare i feriti gravi. Si prodigò
per lenire le conseguenze del conflitto. Promosse innumerevoli iniziative
umanitarie, coinvolgendo aristocratiche, borghesi e popolane, unite in un
sacrificio dalle dimensioni impreviste. Visse sempre con regale discrezione il
suo rango, consapevole degli immensi pesi gravanti sull'unico regno d'Italia,
unica grande monarchia dell'Europa continentale sopravvissuta alla tragedia
della Grande Guerra che spazzò via lo zar di Russia, il kaiser di Germania,
l'imperatore d'Austria-Ungheria e il sultano turco. Accanto a Vittorio Emanuele
III, tutto mente, nervi e alto senso dello Stato e della Dinastia, la Regina
governò l'“altra metà” di un regno che era fatto di simboli, sentimenti,
emozioni e “religiosità”, cioè vincolo tra cittadini. Gli emblemi e i
monumenti, come insegna il Premio Acqui Storia, che armonizza vincitori, premi
alla carriera (come Giuseppe Galasso due anni orsono e Domenico Fisichella
questo 2017) e “testimoni del tempo”, non sono orpelli, ma sostanza di un
Paese. Vanno rispettati e onorati, quale ne sia l'origine. Sono la Memoria.
Toccarla significa condannarsi a subire la medesima sorte. È quanto accade
proprio a Napoli ove si oscurano le statue di Enrico Cialdini e di Camillo
Cavour e si cancella via Vittorio Emanuele III, nel silenzio costernato
dei monarchici locali. Tanto vale
abbattere il pino marittimo che da sempre orna la cartolina con vista sul Rosso
Maniero della Nunziatella, San Martino, Castel dell'Ovo e il Vesuvio. La rivendicazione
di una memoria capovolta nella città dell'Istituto Italiano per gli Studi
Storici di Benedetto Croce e dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di
Gerardo Marotta, degli Illuministi e del principe Raimondo Sangro di San
Severo, primo gran maestro di una gran loggia massonica italiana, è avvilente
scippo della storia, messo a segno da sprovveduti smemorati e, diciamolo, di
“parricidi”.
Nel 1936 anche Elena donò
l'anello nuziale nell'offerta dell'“oro alla Patria”. La guerra per la
conquista dell'Etiopia era stata decisa dal governo, con plauso delle Camere.
Era un'impresa dell'Italia, come lo erano state quelle coloniali di Francia,
Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Stati Uniti... Anche Benedetto Croce si associò.
A ragion veduta, nessuno glielo rimprovera. I fatti vanno capiti nel loro
contesto storico, non con il preteso “senno di poi”. Diversamente dovremmo
radere al suolo tutti i monumenti del pianeta (incluse basiliche d'ogni tempo e
di ogni culto), perché in massima parte frutto di imprese discutibili (come la
“vendita delle indulgenze”. Ma chi ce ne dà diritto? Non è meglio “capirli”?
Nel 1940-1946 Elena di
Savoia condivise le sofferenze degli Italiani. Sua figlia Mafalda, come detto,
ebbe tragica sorte. Il 9 maggio 1946 partì col Re, abdicatario, alla volta di
Alessandria d'Egitto. Come in passato fu al suo fianco: letture, fotografie,
brevi escursioni, la pesca, i pensieri non detti, i lunghi silenzi in attesa di
una visita del figlio Umberto, partito dall'Italia il 13 giugno 1946 alla volta
del Portogallo, ove dal 5 precedente aveva inviato la Regina, Maria José, e i
quattro figli, Maria Pia, Vittorio Emanuele, Maria Gabriella e Maria Beatrice:
tutti piccini, inconsapevoli che il padre sarebbe stato condannato all'esilio
perpetuo. Ora che siamo tanto solleciti verso migranti, profughi, clandestini
ed esuli un po' di riflessione va fatta anche sulla nostra storia...
Vittorio Emanuele III si
ammalò la vigilia di Natale del 1947: una infreddatura, poi una trombosi
(secondo il generale Paolo Puntoni, già suo aiutante di campo, che ne scrisse
“de relato”) e, in breve, il decesso. Morì il 28 dicembre. Era un cittadino
italiano all'estero. Tre giorni dopo la Costituzione decretò l'esilio per “gli
ex re di Casa Savoia, delle loro consorti e dei loro discendenti maschi”,
identificando “discendenti” ed “eredi” alla corona: una differenza formale e
sostanziale sfuggita ai costituenti. La salma del Re Soldato riposa nel retro
dell'altare della chiesa cattolica di Santa Caterina ad Alessandria d'Egitto. Una
lapide lo ricorda sobriamente: “Vittorio Emanuele di Savoia, 1869-1947”. Non
lasciò memorie. Quelle pubblicate da giornali di breve respiro e recentemente
ripubblicate sono apocrife. A serbarne il ricordo più vivido fu Elena, che si
trasferì a Montpellier, nel clima mite del Mezzogiorno di Francia. Vi morì nel
1952. è inumata sotto una lapide
che ne ricorda il nome e, in caratteri romani, le date.
In Oriente Elena è Santa
Elèna, moglie di Costanzo Cloro e madre di Costantino il Grande. Di umili
origini, tenne salda la rotta. Le si attribuisce il rinvenimento della Santa
Croce. I solenni cori del culto ortodosso la associano al figlio con accenti
che volgono alla meditazione. Senza devozione per il passato non vi è
prospettiva di futuro. Perciò esso va recuperato, custodito, tramandato:
patrimonio di civiltà. Tutto intero. Anche quello troppo a lungo trascurato,
come la memoria di Vittorio Emanuele III e di Elena di Savoia.
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